Vorrei tanto accodarmi, in questo inizio di scuola, a tutti coloro che predicano la lezione dello stupore (“cercate di stupirvi, perché lo stupore è il segreto”, “siate curiosi perché la curiosità…”) e augurare a tutti (figli, studenti, colleghi) un sincero “stupitevi!” o “appassionatevi!”. Sono consapevole però che, al di là della affinità emotiva che tale slancio potrebbe trovare, non offrirei alcuna strada, alcun metodo utile a chi realmente fosse interessato al messaggio. 



Infatti come molti linguisti sanno, coniugare ai modi iussivi verbi che esprimono spontaneità costituisce un doppio legame, ossia una comunicazione contradditoria, difficilmente interpretabile da chi la riceve, se non a costo di comportamenti irrazionali frutto della reazione all’impasse in cui il doppio comando getta il destinatario. Come ci siamo sentiti tutti noi, quando nostra madre ci urlava al parco: “corri ma non sudare”? Ecco, “stupisciti”, “sii curioso” hanno lo stesso, fatale, esito. 



Il fenomeno indicato dalla parola “stupore” infatti non è in alcun modo comandabile: “stupirsi” non è riflessivo, è intransitivo pronominale, una sorta di passivo/attivo in cui non sei “tu” che stupisci te stesso, ma qualcosa di esterno che provoca in te stupore. Il bello dello stupore è proprio che non è programmabile. Ciò che genera stupore può anche essere un fatto non eclatante, ma ha la forza dirompente di superare le nostre aspettative, di sorprenderci proprio lì dove siamo, e aprirci a contemplare lo spettacolo di una nuova prospettiva che si insinua nel noto. L’uomo, infatti, affronta le diverse circostanze in cui è coinvolto pieno di aspettative, le quali tendono a fargli vedere solo ciò che, appunto, si aspetta di trovare. È il normale atteggiamento di fronte a un impegno preso con serietà: i pregiudizi e i desideri, fusi in un non sempre dominabile miscuglio, orientano la nostra attesa.



Per questo sostituisco (o corroboro) il mio augurio con una citazione in cui mi sono imbattuto e che mi ha sorpreso mentre studiavo una classificazione di figure retoriche.

Lo studio della retorica ha momenti non propriamente entusiasmanti, soprattutto quando si devono affrontare le classificazioni sistematiche. Così, mentre riprendevo un famoso trattato di retorica su cui ho molto studiato (H. Lausberg), le mie aspettative si erano saldamente attestate al piano pragmatico della pura utilità: trovare e capire le definizioni che mi servivano per il mio lavoro. Ma, così concentrato ai miei fini, nel bel mezzo della lettura di un catalogo fatto con lucida e fredda razionalità, dallo stile classificatorio e ben poco ammiccante al lettore annoiato, trovo questa definizione di ornatus (l’uso delle figure retoriche che “abbelliscono” il testo):

“L’ornatus risponde all’esigenza dell’uomo di una bellezza delle espressioni umane della vita e della propria rappresentazione umana. L’ornatus raggiunge quindi con la sua intenzione creatrice, la sfera delle arti più elevate. Nella sfera delle arti più elevate, l’artista intende ottenere, con le sue realizzazioni artistiche, una raffigurazione “mimetica” (che ricostruisce, generalizza, rende evidente ed eleva) dei contenuti che illuminano l’esistenza e delle più alte aspirazioni della natura umana”.

Accade così che mentre sto lavorando in modo adeguato alle mie (corrette) aspettative, vengo introdotto a una nuova profondità di sguardo rispetto allo stesso oggetto di studio. Lausberg, senza abbandonare il suo stile schematico, definitorio, ridondante, ha detto una cosa semplice ma sorprendente: fare arte non corrisponde all’esercizio di tecniche, ma le tecniche sono generate da un artista impegnato con l’esigenza di bellezza; e ancora: l’arte dà voce a ciò che “illumina l’esistenza” e alle “più alte aspirazioni della natura umana”.

Quella in cui mi sono imbattuto non è certo una definizione “nuova” di arte, ma la sua capacità “di stupore” è stata per me legata al fatto che ha illuminato il significato del catalogo di figure retoriche, il quale mi si è svelato solo in quel momento per quello che era, risultando così molto più interessante di quanto mi aspettassi. Lo stupore è il contraccolpo di una scoperta: scoprire il valore di una cosa, ossia che una cosa ha “a che fare con me”.

Pensate che occasione a scuola: per stupirsi non occorre fare miracoli (“correre senza sudare”), basta guardare tutto ciò che c’è con serietà. Lo stupore non sarà come trovare un ago in un pagliaio, o l’oro nel fango, che sono due metafore belle ma inadeguate: l’ago o l’oro a scuola sono quel punto che svela il valore del pagliaio e l’utilità del fango.

Ecco il mio augurio per chi inizia la scuola: siate seri con le figure retoriche, perché esse sono, in letteratura, il frutto più compiuto dell’esigenza di bellezza di ogni uomo!