Non si può dire che chi regge le sorti della nostra povera scuola alle parole non faccia seguire i fatti. Solo che queste parole sono pensate male. E come è noto pensare male non aiuta ad agire meglio. A luglio, il ministro aveva annunciato: “il 15 settembre daremo il via libera al gruppo di lavoro che dovrà fare chiarezza sull’uso dei dispositivi personali degli studenti in classe”. Ora il giorno fatidico è arrivato. Una commissione di “saggi” ha quarantacinque giorni per redigere le linee guida e poi via verso il radioso domani.



Al ministero è da parecchio che ci provano. Più di un anno fa, nel giugno del 2016, era stato il famigerato sottosegretario all’Istruzione, Davide Faraone, ad annunciare in una intervista alla Stampa l’arrivo imminente dei cellulari in classe. Poi non se ne seppe più niente. La vecchia talpa dell’utopia tecnologica, evidentemente, aveva ripreso a scavare. Oggi è arrivato finalmente il momento dell’annuncio. Il nuovo mondo è in vista. Tra noi e i suoi lidi generosi di frutti mai assaporati solo una commissione di “saggi”. Chi dirà mai ai nostri esploratori che all’orizzonte non c’è nessuna terra nuova ma solo il fondale di cartapesta di una vecchia pubblicità?



Dieci anni fa, nel 2007, il ministro Fioroni vietò l’uso dei telefonini in classe. Quel divieto riconosceva che smartphone e cellulari erano motivo di distrazione per chi li usava e per i suoi compagni. Soprattutto, in classe erano una forma di insolenza, un modo, se ce ne fosse bisogno di altri, per mancare di rispetto all’insegnante. Di tutto questo oggi ai nuovi inquilini di viale Trastevere non sembra importare granché. Così come pare non valgano per loro quelle preoccupazioni per gli episodi di bullismo tecnologico che stavano alla base dei divieti del 2007 e che non mi pare siano venuti meno in questi anni.



Quando l’uso dei telefonini sarà libero e non dovrà sottostare più a nessuna autorizzazione (e dunque a nessuna sanzione), non si capisce bene come si potranno evitare video e foto messi in rete senza nessun rispetto per le persone, siano essi compagni di scuola o professori, variamente svillaneggiati via web. Al ministero vale la solita retorica dell'”uso consapevole della tecnologia” e c’è da giurare che la formula avrà ampia circolazione tra i “saggi”. Ma è evidente a tutti che si tratta di una formula vuota, priva del benché minimo significato concreto. Forse il male si compie per ignoranza, come sapevano già gli antichi, ma sulla possibilità di insegnare la virtù ci sarebbe da spiegare agli incauti burocrati della scuola digitale che tra i molti modi non pare compaia quello di autorizzare in classe, tra adolescenti, una gara a chi ce l’ha più fico, più luminoso, più costoso.

Perché di questo si tratta. L’idea bislacca che tanto piace al ministro Valeria Fedeli in concreto non significa altro: lo smartphone in classe è il passaggio da una tecnologia come servizio offerto impersonalmente dall’istituzione scolastica ad una tecnologia come bene di consumo di proprietà del singolo studente. L’inganno è duplice e con esso l’offesa alla scuola come istituzione nazionale, di tutti.

L’idea del ministero, infatti, non solo autorizza la peggiore competizione tra gli studenti, e giocoforza tra le loro famiglie, a chi si compra l’oggetto più nuovo, ma riduce di fatto la scuola ad un mercato. E sul mercato, come si sa, vince il più forte. Questa esposizione della scuola ai linguaggi della diseguaglianza rappresenta il colpo più fiero che si possa infliggere all’idea di spazio educativo comune. Di un luogo cioè dove, attraverso lo studio, si dà forma al sentimento di stare insieme, stretti da un vincolo morale unitario. Perché questo accada le differenze sociali più evidenti (e più offensive) devono arretrare sullo sfondo. È su queste basi che le democrazie si sono date un servizio scolastico a base universalistica. Ora, che la scuola democratica arretri sotto i colpi di oggetti ad alta desiderabilità di massa come sono appunto i gadget tecnologici non rende questo arretramento meno preoccupante. Una volta che ci si è messi per questa strada, il linguaggio del “proprio” è destinato a prevalere su qualsiasi invocazione di una base comune nell’esperienza dei giovani. La scuola viene così privatizzata di fatto, restituendo gli studenti al dominio delle differenze e delle diseguaglianze del “mondo di fuori”.

In più, confermando gli studenti nella media dei loro consumi culturali, lo smartphone in classe preclude ai giovani l’esperienza della scuola come reale scoperta di quello che non si conosce e come incontro con l’estraneo culturale. In un mondo in cui il possesso di un “telefono intelligente” rappresenta una modalità totalitaria di consumo culturale, il libro costituisce infatti l’oggetto desueto e funziona come metafora del rapporto con ciò che non è il nostro mondo. Educando viceversa i giovani a ritrovare in classe ciò che già conoscono fin troppo bene fuori li si addestra nella logica dell’uguale e della ripetizione del noto. È abbastanza singolare che questo accada in un’epoca, al contrario, segnata dai contatti interculturali e dai numerosi conflitti che essi finiscono inevitabilmente per suscitare. Come fanno ad incontrare il diverso se i giovani sono spinti a rifiutare fin dalla scuola tutto ciò che non è il loro mondo abituale?

Domande cui sarebbe interessante i “saggi” della Fedeli sentissero la necessità intellettuale di dare una risposta.

Un’ altra considerazione merita di essere meditata con attenzione. La scuola democratica aspira giustamente ad essere uno spazio educativo. Ma quale educazione fa ricorso ad uno smartphone? Gli studenti (e molti genitori) si confermeranno nell’idea che la scuola vale poco e niente, che tutto quello che conta sta fuori di essa. Questi studenti, tuttavia, e i loro genitori, non sanno che in questo modo il compito della scuola cambia radicalmente e quando lo capiranno, se mai lo capiranno, sarà troppo tardi.

L’idea che la scuola serva a fornire gli strumenti intellettuali con i quali ciascuno di noi costruisce faticosamente la sfera della propria libertà personale (dare un nome alle cose e ai loro rapporti per tentare di sfuggire alla forza costrittiva che esse esercitano su di noi), questo che è stato da sempre il compito di una “educazione per l’uomo” dilegua sotto la pressione del nuovo, incontrastato, prestigio della merce. Al suo posto si mostra in azione un’altra, più insidiosa, tendenza: fare della scuola il luogo in cui l’ individuo viene addestrato esclusivamente a rispondere alle richieste di integrazione avanzate nei suoi confronti dalla società. Non ci si può sottrarre, evidentemente, a queste richieste. Lo studio, la cultura, il rapporto intenso con le fonti della conoscenza servono a proteggere i singoli da una pressione eccessiva. Servono cioè a costruire quella distanza critica tra sé e il mondo per evitare che l’individuo abdichi completamente alla sfera sociale. Da questo punto di vista, lo smartphone a scuola non è nient’altro che la brutale sanzione del passaggio nella sfera educativa dal principio dell’autonomia a quello dell’eteronomia. A meno che non si voglia confondere la libertà individuale con la privatizzazione. La scuola digitale nasce da una totale incomprensione del concetto di autonomia personale e fa delle aule una palestra di conformismo sociale. È questo che al ministero dell’ Istruzione non arrivano a comprendere nella vacuità del loro futurismo tecnologico di maniera.

Si consideri infine un’ultima questione. La carica incolta che viene dal centro stesso del sistema di governo della scuola italiana. L’incultura non sta semplicemente nella volgarità di contrapporre i dispositivi tecnologici informatici a quella più antica tecnologia che è il libro. L’incultura sta nell’incapacità di questa dirigenza della scuola italiana di fare i conti con la quantità di obiezioni che ormai in tutto il mondo vengono mosse non alla tecnologia in sé ma all’efficacia di questa tecnologia per la didattica. È l’abborracciato dell’ideologia del tablet e dello smartphone in classe che colpisce. L’ approssimazione con cui il ministro e i suoi burocrati impostano e affrontano il tema dell’innovazione tecnologica a scuola. Il modo scomposto, sciatto, con cui ad esempio sono state concepite e svolte le poche sperimentazioni sull’argomento, come quella sulle classi 2.0 del 2009 i cui dati, imbarazzanti, sono stati consegnati solo nel 2014, senza che nessuno ne potesse discutere apertamente.

La verità è che se il ministro Fedeli fosse chiamato a rendere conto pubblicamente degli esiti dell’impiego di tablet e software vari per la didattica, non la didattica speciale, ben inteso, ma per l’insegnamento che quotidianamente si svolge in classe, sarebbe costretto al di là di ogni retorica a riconoscere un fallimento. Ma a questo confronto il ministro non si sottoporrà. La sua idea di scuola ha molto più a che fare con un centro commerciale che con un’istituzione nazionale radicata nel patto costituzionale tra gli italiani.