Nella recente analisi dell’Oecd sui sistemi scolastici per l’anno 2016 (Oecd Employment Outlook 2017), l’Italia figura tra i paesi peggiori in Europa a causa dell’alto tasso di disoccupazione tra i giovani in età 15-24 e dell’alta proporzione di Neet, come ormai sono chiamate le persone che non hanno né cercano lavoro e che non frequentano alcuna scuola o corso di formazione professionale.



I dati Oecd servono solo a provocare dibattito, non ad individuare politiche correttive. Infatti, la logica del confronto tra paesi porta inevitabilmente a semplificare le analisi, ignorando le strutture sociali e normative dei paesi per i quali si producono le statistiche. Tra l’altro, l’età 15-24 dei giovani presi a riferimento dalle statistiche Oecd è l’età alla quale tanta parte dei nostri giovani è ancora in formazione e mai si è misurata con il lavoro. D’altro canto, in Italia, bisogna ammetterlo, la formazione e il lavoro non sono così bene intrecciate. Quindi, ben vengano le provocazioni.



Nel seguito, limitiamo il nostro ragionamento ai laureati e rispondiamo al quesito se studiare ad alti livelli può dare qualcosa di concreto a chi si applica. Per capire il ragionamento, è necessario ribadire alcuni punti fermi che danno il senso generale della situazione in Italia.

1. I Neet italiani con laurea sono pochi. Sono, infatti, una netta minoranza nei numeri dell’Oecd. Anzi, la laurea si qualifica come il titolo di studio più incisivo per trovare lavoro.

2. Le nostre lauree sono testimonianze di percorsi di formazione apprezzati. Ne sono prova vivente i laureati italiani che vanno a lavorare all’estero: questi ottengono, infatti, riscontri sempre positivi sia nelle professioni che nella ricerca, anche rispetto a giovani di paesi con sistemi formativi di comprovata qualità, come Francia, Regno Unito e i paesi del Nord Europa. Si potrà eccepire che noi li prepariamo e gli altri li utilizzano, però non è la preparazione che fa difetto.



3. Le imprese del nostro Paese faticano a ritornare nelle posizioni in cui erano prima del 2008. Assumono, quindi, con circospezione e danno ai nuovi reclutati stipendi spesso “iniziali”. Insomma, la situazione sta evolvendo in senso positivo. Quanto impiegheranno le imprese a recuperare le posizioni perdute? Purtroppo, la casualità delle previsioni economiche non ci aiuta ad intuire il futuro. 

4. Gli stipendi iniziali dei laureati sono bassi. Per periodi che possono durare anni, i laureati sono pagati con stipendi talvolta inferiori a quelli di un operaio di pari età assunto anni prima (si vedano le figure 1 e 2 con i dati Almalaurea, dalle quali si può percepire che, ad un anno dal conseguimento del titolo, un laureato triennale italiano percepisce in media 1.100 euro e uno magistrale poco più). Lo stipendio e la carriera del laureato volonteroso sono però destinati a crescere ad una velocità nettamente superiore a quella dei non-laureati (anche questo si percepisce dalle tabelle 1 e 2). Chiaramente, non basta essere laureati per progredire velocemente, tuttavia senza una laurea, le ali dell’ambizione sono di piombo.

Ed ora la parte ostica del ragionamento. Come mai ci sono laureati a cui le cose vanno bene e altri che pagano dazi seri in termini di lavoro? In ricerche svolte in varie università italiane, tra cui quella di Padova, è emerso che due variabili distinguono i laureati fin dai primi giorni dopo il conseguimento del titolo: a) la velocità nel reperire un lavoro, b) la qualità del lavoro trovato, o, in termini prosaici, l’entità dei primi stipendi.

Com’è intuibile, le categorie di laureati che trovano presto lavoro coincidono con quelle che trovano un buon lavoro. Si tratta di laureati in ingegneria, in scienze cosiddette “dure” (matematica, informatica, fisica, chimica, scienze della terra), in statistica e in economia. Trovano difficoltà nel reperire un lavoro le lauree di ambito umanistico (lettere, filosofia, psicologia, comunicazione) e talune di ambito sociale (scienze politiche, sociologia, giurisprudenza). Quella dei tecnici e degli scienziati da una parte e degli umanisti e studiosi sociali dall’altra è, tuttavia, una storia vecchia, che rimarrà senza soluzione finché certi corsi di studio universitari non decideranno di orientarsi più decisamente verso il lavoro e finché gli studenti decideranno di inseguire chimere. Per esempio, la situazione occupazionale dei laureati in giurisprudenza sta migliorando da quando numeri crescenti di laureati si orientano verso le imprese invece che verso la libera professione.

Una seconda fonte di problemi per i laureati che vogliono lavorare sono i voti bassi. Si sente dire talvolta che quello che si impara all’università non conta, che si deve reimparare tutto ex novo sul lavoro. E’ vero, ma solo in parte. Il lavoro è certamente formativo, ma quanto si apprende a scuola è importante per la carriera. D’altronde, poiché a prendere voti bassi sono spesso studenti-lavoratori, lavorare invece che frequentare le lezioni — quantunque la necessità di reddito sia spesso conseguenza di uno svantaggio sociale ineludibile — può condizionare sia l’immissione nel lavoro, sia la carriera, almeno nei primi anni di lavoro.

Una terza categoria di laureati con problemi di lavoro sono le donne. Varie ricerche in tutto il mondo dimostrano che questo condizionamento non dipende dalle attese di maternità, ma da un altro freno. La maternità influisce di sicuro sulla carriera, almeno all’inizio, quando i figli sono piccoli, però non condiziona l’immissione nel lavoro. Le ricerche, invece, dimostrano che le donne soffrono, nella fase di reclutamento, di un problema che è al contempo psicologico e sociale, poiché hanno attese di occupazione più limitate dei coetanei maschi e contrattano all’ingresso per stipendi più bassi; in altre parole, “mirano basso”. Le auto-limitazioni riguardano la ricerca di posti di lavoro più vicini a casa, raramente all’estero, posti che sono più sicuri sul piano contrattuale (e quindi per posizioni professionali più basse) e più tranquilli sul piano dell’impegno orario (ma anche delle carriere, come il lavoro nelle pubbliche amministrazioni). I maschi si distinguono per l’atteggiamento opposto, sono più avventurosi. D’altra parte è dimostrato che, se una laureata si presenta sul mercato del lavoro con lo stesso spirito di sfida di un laureato, ottiene gli stessi risultati. In altre parole, non è il genere in quanto tale che limita i risultati, bensì è l’adattamento agli atteggiamenti di genere che è all’origine del problema. Ribadiamo che — a Padova come nel resto del mondo — si sono notate differenze nelle aspettative di stipendio da parte delle laureate e che queste differenze permangono a parità di livello formativo e di area disciplinare.

Un quarto e ultimo ostacolo all’inserimento lavorativo, al quale si dà meno credito di quanto meriti, è il carattere del laureato. Si constata che chi è poco attrezzato sul piano caratteriale, tende a soffrire di più le logiche del mercato del lavoro e delle organizzazioni produttive. Detta così può sembrare una banalità, uno psicologismo senza seguito. Tuttavia, l’economista e statistico americano James Heckman, premio Nobel 2000, cercando di individuare i motivi per cui gli studenti delle scuole superiori americane avevano successo nel lavoro e nelle vita più di quelli che si presentavano, diremmo in Italia, da “privatisti” al solo esame finale, ha capito che erano certe competenze, dipendenti da doti caratteriali, che “facevano la differenza” tra i due insiemi dei frequentanti regolari e dei “privatisti”. Da allora, la letteratura sul tema si è considerevolmente arricchita, con indicazioni convergenti. 

A Padova, è stato effettuato nel 2015 e nel 2016 un esperimento psicometrico, somministrando a numerosi laureati un certo numero di test psicometrici. Si è trovato che — a parità di tutto il resto, ossia per pari caratteristiche demografiche, sociali e formative — chi dimostrava di essere resiliente (ossia capace di rialzarsi dopo un rifiuto in fase di selezione per il lavoro) e si sentiva padrone del proprio destino, per cui ciò che gli accadeva dipendeva in larga misura da se stesso e meno dal caso o dalla fortuna, era capace di trovare lavoro molto prima di chi aveva un atteggiamento arrendevole e deresponsabilizzato. Tutto ciò, ribadiamo, a parità di curriculum vitae et studiorum

Uno potrebbe eccepire che l’università non c’entra con quasi tutti i problemi descritti, in modo particolare con le variabili sociali e caratteriali degli studenti. Invece, una forte corrente internazionale, alla quale va dato credito se non altro perché composta da studiosi di ogni disciplina, non solo psicologica, sostiene che il carattere va formato prima che il laureato si scontri con un mondo del lavoro così diverso da quello dello studio. A questo fine può contribuire una didattica universitaria innovativa nei metodi, che rifiuti gli esami “a crocette” e che faccia ragionare gli studenti in modi che somiglino alla realtà, che li obblighi a lavorare in gruppo come faranno sistematicamente dopo, a scrivere frasi compiute e report, a presentare le proprie idee in pubblico, a toccare con mano gli sviluppi culturali, tecnici e scientifici che apprendono per linee teoriche. La capacità di resilienza in mercati del lavoro ostici e la costruzione del proprio destino con la propria testa maturerebbero allora in modo più definito e meno duro rispetto a quanto comunque si forma quando c’è l’impatto con il mercato dl lavoro. 

Il Miur ha intuito che questa è la linea dell’orizzonte verso la quale ri-orientare la didattica dell’università. Tanto è vero che premia gli atenei che innovano sul piano del metodo didattico nella direzione detta. Tuttavia, la reazione dell’università italiana è stata tiepida. Chissà che non siano gli studenti, che dell’università sono ragion d’essere, a capire l’importanza di quanto qui affermato e a chiedere una sterzata nei metodi didattici e d’esame. Se lo chiedessero gli studenti, le cose cambierebbero radicalmente.