Non saprei dire a quanto risalga la cosiddetta “emergenza” linguistica. Sento da più di un decennio il lamento degli amici universitari sull’analfabetismo dei loro studenti — e l’aneddotica riempirebbe volumi. Nei primi anni del millennio, mi è capitato più volte di tenere corsi all’Università di Bologna di Educazione alla scrittura, segno che già allora il problema era così sentito da spingere alcune facoltà del mio ateneo a darsi da fare, anziché limitarsi alla querimonia. Una misura empirica dello scadimento generale nelle competenze linguistiche può essere lo scrutinio dell’uso dell’italiano da parte di due segmenti pubblici della classe dirigente, come sono la stampa e la politica: definirlo sciatto e approssimativo è essere generosi.
Dunque, non è un’emergenza, almeno nel senso temporale del termine, troppo protratta per essere tale. Non collasso, ma lenta erosione. Dice bene Luca Serianni, in una recente intervista, quando indica le cause prime di tutto ciò, assai più che nei presunti effetti collaterali dei social networks o nella presenza crescente (ma solo in alcune zone del paese) di alunni stranieri, nell’aumento esponenziale degli scolarizzati degli ultimi decenni. E’ vero che trenta o quarant’anni fa lo studente medio padroneggiava meglio l’italiano; è però anche vero che il muratore o il fontaniere medio, non che saperlo scrivere, neanche lo parlava. I troppi lodatori del tempo antico, alla cui schiera aderisce la gran parte degli opinionisti dei maggiori quotidiani, dovrebbero dirci con chiarezza se, preso l’insieme, “era meglio prima”.
Ciò premesso, emergenza o meno, il problema dello scadimento dell’italiano esiste eccome, e riguarda in primis la scuola. E’ dunque benvenuta l’iniziativa del ministro, che ha istituito un gruppo di lavoro, mettendovi a capo proprio Serianni, con il compito di studiare acconce contromisure. Più che sensata appare l’idea di partire dalle prove conclusive dei due cicli: è noto, infatti, a chi sa di scuola che nulla incide sui comportamenti reali dell’insegnamento come la configurazione dell’esame finale. Introdurvi nuovi tipi di prove non solo ne certifica l’utilità e ne rafforza la raccomandazione, come giustamente osserva Serianni, ma ne garantisce l’uso.
Da quanto emerge dalle dichiarazioni del suo coordinatore, il gruppo privilegerà due aspetti: quello della ricchezza e dell’esattezza del lessico e quello della competenza testuale, intesa come capacità, in termini sia di comprensione sia di produzione, di padroneggiare la combinatoria dei costituenti di un testo, di saggiarne la coerenza e la coesione, di verificarne la tenuta espositivo/argomentativa. Già l’indicazione del riassunto, come esercizio mirato alla costruzione e al consolidamento di questa competenza, mi sembra preziosa: riassumere, infatti, come attesta anche la ricerca della linguistica testuale, è un compito molto complesso, in quanto mette alla prova le abilità appena descritte sia sul fronte della fruizione di un testo altrui, sia su quello della composizione di un testo proprio.
Contributo minimo. Nulla ancora ci viene detto sulle leve che si vorranno impiegare per ampliare il lessico. Vale forse ancora, al proposito, un vecchio suggerimento di Calvino: il modo migliore per condurre i giovani ad un uso del linguaggio sempre più vario e ricco — e sempre meno approssimativo e vago — consiste nell’esercitarli alla descrizione, alla difficoltà del passaggio tra ciò di cui si fa esperienza con i sensi e la sua traduzione in scrittura.