Milano, 12 settembre, primo giorno di scuola in una primaria di buona reputazione, in zona semi centrale. La dirigente accoglie i genitori: è presente il padre di una bimba iscritta in quinta, che in quattro anni ha incontrato quattordici insegnanti, con indubbio addestramento alla flessibilità e allo sviluppo delle capacità relazionali. La dirigente, visibilmente soddisfatta, comunica ai genitori che rientrerà l’apprezzata docente di matematica di seconda, assente da due anni per congedo di maternità, e per italiano ha preso servizio una bravissima docente, oggi assente solo perché rientrata a casa per un matrimonio, ma che ha già prenotato il volo per domattina.



Milano, stessa scuola, 22 settembre. La classe quinta non ha ancora una maestra: la titolare ha fatto pervenire la comunicazione che è in maternità a rischio. Suo giustissimo diritto, ma sorge una domanda: quando è andata a firmare l’entrata in servizio, la gioiosa buona nuova non le era ancora nota? Non ci sono possibilità di tutelare contemporaneamente i diritti dei docenti e quelli dei ragazzi?, mi chiede sommessamente il padre in questione.



Questo aneddoto (ma se ne potrebbero raccontare altri cento) è un’ennesima prova del fatto che i meccanismi centralizzati di reclutamento e assegnazione dei docenti alle sedi sono del tutto inadeguati. Nel dire inutilmente per l’ennesima volta che questo sistema non ha mai consentito, non consente e mai consentirà in futuro di coprire in modo adeguato — e non solo in base al concetto “un uomo (o più spesso una donna)/ un posto” — i bisogni delle scuole, mi sento nello stesso stato d’animo di Catone il Vecchio (si parva licet…) quando alla fine di ogni suo discorso in Senato concludeva “ceterum censeo Carthaginem esse delendam”… L’unica soluzione realistica e non ideologica è quella di lasciare al centro il processo di formazione e accreditamento, e alle scuole o reti di scuole il reclutamento, in base alle esigenze determinate dal progetto educativo che, non dimentichiamolo, è un vero e proprio patto con le famiglie. 



Ciò posto, i dati sull’ultima tornata di immissioni in ruolo confermano in modo meno aneddotico ma ugualmente evidente quanto ho detto finora. 

I posti coperti sono ripartiti in maniera quasi perfettamente proporzionale alla distribuzione della popolazione scolastica (all’incirca 40 per cento al Nord e al Sud, e 20 al Centro). Poiché è cosa nota che i posti liberi sono concentrati al Nord, e che si riscontrerebbero oggettive difficoltà nella “deportazione” di alcune decine di migliaia di studenti, anche in giovane età, appare evidente che i docenti non sono stati assegnati in base alle carenze dell’organico, ma con l’obiettivo di accontentare il maggior numero possibile di persone (o di scontentarne il meno possibile, che è quasi lo stesso). 

Di fronte al fallimento dell’algoritmo per l’assegnazione (giuro: ho sentito un ragazzino in metro dire a un suo compagno “taci tu, algoritmo”!) il ministero ha presumibilmente deciso di assegnare i posti in base ad accordi sindacali per cui il criterio fondamentale non è mandare gli insegnanti dove c’è bisogno, ma salvaguardare il diritto alla mobilità ricorrendo a qualsiasi mezzo anche ai confini con il lecito (si veda il caso denunciato dal preside Zen a Bassano). Mi dispiace, ma non mi stupisce: da quando nel 1974 Marzio Barbagli scrisse che la scuola italiana “riconverte in insegnanti i laureati in eccesso”, nulla è cambiato, se non che la domanda di lavoro dei laureati, almeno in alcuni settori, è cresciuta, e quindi l’offerta si concentra come seconda scelta nelle zone o nelle aree disciplinari in cui la domanda è debole.

Ma i dati mi suggeriscono una seconda considerazione, questa volta qualitativa,  sul peso delle chiamate dirette, che avrebbero dovuto consentire alle scuole di avere docenti con un profilo coerente con il proprio progetto educativo. 

La quota complessiva dei chiamati è del 41,5%: sta a chi legge di decidere se sono molti (rispetto a niente negli anni precedenti) o pochi (rispetto alla possibilità teorica di arrivare al 100 per cento). A mio avviso, il valore è basso rispetto alle implicazioni positive della chiamata diretta (avere gli insegnanti in tempi più brevi, avere insegnanti motivati al lavoro in una scuola particolare, garantire la continuità didattica in un maggior numero di casi…) e denuncia un certo timore di grane sindacali da parte dei dirigenti, o, in alternativa, l’incapacità decisionale nel settore più delicato della vita della scuola: in entrambi i casi, è un indicatore di una sostanziale debolezza della dirigenza. Il preside sceriffo, sceso da cavallo ed entrato nel saloon, si è seduto a bere una birra coi giocatori di poker. Forse, nelle procedure di qualificazione dei dirigenti, bisognerebbe tenerne conto.  

Guardando più da vicino, possiamo notare che dei circa 40mila immessi in ruolo, due terzi sono di nuova nomina e un terzo trasferiti, come previsto dalla norma, ma questo vale per il totale, in quanto al Nord gli immessi in ruolo per trasferimento sono il 17,7% , al centro il 32,2% e al Sud il 42,6%. Sui nuovi immessi, i dirigenti del Nord hanno esercitato il diritto di chiamata in due terzi dei casi, al Sud in meno di un caso su cinque: ma fra i trasferiti, le percentuali fra Nord e Sud sono molto vicine, intorno al 30%. Il dato interessante non è questo, che, ripetiamo, è scontato, ma il diverso comportamento dei dirigenti nei confronti delle chiamate dirette. In presenza di un’esplicita richiesta dei docenti di insegnare in un dato ambito, i dirigenti del Sud esercitano le loro prerogative in misura sempre ridotta, ma comunque maggiore che per i nuovi nominati. 

Ci sono delle differenze territoriali consistenti. Fra i neoassunti, la media delle chiamate dirette è circa una su due (47,4%), ma al Nord sono due su tre, al centro una su tre e al Sud il 28,7%: se guardiamo il totale delle immissioni in ruolo con incarico diretto il 66,2% è avvenuto al Nord, il 18,9% al Sud e il 15% al Centro. Poiché sul totale i valori sono rispettivamente 47,3%, 20,9% e 31,8%, è evidente che i dirigenti in servizio nelle regioni del Sud e  del Centro hanno sottoutilizzato la possibilità loro offerta (meno 12 e meno 6), mentre i dirigenti in servizio nelle regioni del Nord ne hanno più ampiamente approfittato (+19%). 

Facciamo ora lo stesso ragionamento per gli immessi per trasferimento, che sono proporzionalmente più numerosi al Sud, com’era ovvio dato che i flussi di spostamento sono avvenuti soprattutto verso Nord: gli incarichi per trasferimento, in media il 30,4%, sono stati il 42,6% al Sud, il 32,2% al centro e il 17,7% al Nord.  

I dati relativi ad un solo anno non fanno testo, e può darsi che questi andamenti siano legati ad una certa resistenza alle novità, ma il timore che si tratti invece di una ulteriore prova dell’incapacità delle scuole a utilizzare i già ridotti margini di autonomia di cui godono non fa bene sperare per il futuro. Roma ci mise 53 anni per accogliere il suggerimento di Catone: è vero che la  decisione si prenderà nello stesso luogo, ma sarebbe preferibile che nel caso dei docenti i tempi fossero più brevi.