Discutere dell’uso degli strumenti digitali — smartphone in classe sì (la ministra Fedeli), smartphone in classe no (molte e variegati voci) — sembra spesso prescindere dalla realtà; quella della classe, coi i libri digitali, le Lim, le apple tv, gli iPad, i pc, e i nativi digitali che, attualmente, sono ancora lì, seduti in un luogo fisico, quasi sempre con dei non nativi digitali, vista l’età media degli insegnati, tutti over 50.



Un nativo digitale mi ha recentemente chiesto, stupito, perché, avendo cliccato sull’iPad sull’immagine del libro in uso nella classe, non avesse accesso al libro (anch’esso digitale) richiesto; la mia spiegazione, vale a dire gli accessi multipli e la conseguente “lentezza” (in realtà una frazione di secondo, il tempo di un clic), nonché la necessità di registrarsi presso la corretta piattaforma digitale e/o scaricare la app desiderata, non sono bastate finché non è emersa la vera natura del problema: non era stata acquistata copia del libro digitale desiderato.



Ma ciò non scalfiva affatto la convinzione del nativo digitale che cliccare è avere, ed avere subito; un’azione così banale per una didattica digitale di tipo strumentale — accedere ad un testo scolastico, ricchissimo dal punto di vista di strumenti ed ausili — appariva impossibile.

Dopo pochi minuti, due studenti si sono messi a guardare l’uno l’iPad dell’altro; il nativo digitale A si è accorto che il nativo digitale B aveva trovato un modo, da lui elaborato in precedenza e in base all’utilizzo di altri testi sempre digitali, di ottimizzare l’uso dell’iPad per un certo scopo, e quindi il nativo digitale A ha appreso tale ottimizzazione dal nativo digitale B. Il tutto è stato condiviso da tutti i nativi digitali presenti, con più o meno attenzione e prontezza, presumibilmente a causa di uno dei seguenti fattori: a) utilizzo dell’iPad già ad advanced level; b) distrazione; c) totale mancanza di interesse per la risoluzione del task in tempi ottimali.  



Si tratta di casi di didattica digitale di tipo strumentale, e ben diversi dalla didattica “digitale” caratterizzata da metodologie didattiche basate sulla promozione del ruolo attivo degli studenti e sull’acquisizione di competenze; tuttavia questi casi mostrano la necessità di una scolarizzazione digitale dei nativi digitali in ambiente cooperativo. Aggiungere lo smartphone agli strumenti digitali non potrà accelerare tale processo, che è qualcosa di intrinsecamente diverso dall’usare il cellulare per condividere, chattare o postare; per non parlare, appunto, della didattica digitale, che richiede un ruolo attivo degli studenti, e non che prendano semplicemente in mano un altro strumento, quando ne hanno già altri a disposizione (ovviamente, presupponendo che il Piano digitale abbia toccato tutte le scuole del regno, fornendo banda larga, iPad, pc, Lim eccetera; oppure la ministra Fedeli ha trovato il modo di ovviare a delle carenze e mancanze tecniche grazie all’utilizzo dello smartphone personale degli studenti, ovviamente dotato di propria connessione Internet?)

Qualsiasi sia la motivazione, la proposta della ministra si colloca sicuramente nell’ambito di una didattica strumentale e non digitale, ben diversa dalla proposta fatta al Times Higher Education World Academic Summit dal professor Eric Mazur, professore di fisica ad Harvard e promotore della didattica della flipped classroom fino dagli anni 90; lezioni registrate viste a casa, grazie alla strumentazione digitale, e poi in classe (previo breve test per verificare l’esecuzione del compito a casa) problemi di risoluzione, più attivi.

Nell’età attuale, definita da Mazur l’età dove “non abbiamo bisogno di memorizzare nulla”, il professore incoraggia i suoi studenti a portare i laptop e i cellulari in sede di esame; li incoraggia a cercare tutto quello che vogliono, tutte le volte che lo vogliono, in quanto il suo scopo non è verificare la loro capacità di information recall, ma le loro abilità creative ed analitiche.

Per farlo, ammette Mazur, “devo essere certo che le risposte alle domande che faccio non siano disponibili con una semplice ricerca Google” (cit.). A livello universitario, la proposta ha una sua sensatezza, soprattutto per l’annotazione di Mazur sulla presenza di abilità analitiche e non solo creative, tali da permettere allo studente in fase di esame di saper distinguere il dato analitico corretto alla risoluzione del problema posto. Se la domanda è, per usare le parole di Mazur, information recall, non vi sarebbe alcun processo di apprendimento, anche se il cellulare restasse chiuso in cartella, e questo aspetto è certamente condivisibile.

Tralasciando l’inevitabile alzata di scudi che una proposta del genere susciterebbe presso docenti e magari anche genitori se venisse estesa alla scuola secondaria, quale sarebbe la sua fattibilità? 

La vera difficoltà, un po’ provocatoriamente, sta nell’ideazione di domande a cui non si possa rispondere con un bel paste dalla Google search, ma ragionando, vale a dire capendo la natura dei dati proposti alla luce di una domanda. Tale domanda permetterà, in tal modo, di far acquisire allo studente quella conoscenza che, in realtà, altri prima di lui hanno già elaborato. Il processo lo renderà competente.

Lo scopo dell’educazione è, nella società moderna, la formazione di individui atti a svolgere funzioni lavorative, e se la nobilitazione del lavoro attuata dal cristianesimo non è del tutto persa nella secolarizzazione moderna, e se le ricerche pedagogiche del Novecento non sono passate invano, trovo questa affermazione totalmente adeguata alla realizzazione della persona. “I giovani non vogliono vivere di sovvenzioni: vogliono lavorare ed allargare le loro opportunità”, ha detto Draghi, presidente della Bce, al Trinity College di Dublino: anche se la ricerca del lavoro, di un amore, di una casa, di tutto ciò che caratterizza il mondo adulto, si sono spostate in là come età — indicando certamente una fragilità crescente —, il desiderio del lavoro, di essere figure atte a svolgere funzioni lavorative, non può evacuato.

Di questa funzionalità, un obiettivo che certamente la società ha il dovere di chiedere ma anche di creare nei suoi membri, è componente essenziale il character, e non a caso l’altra grande rivoluzione, oltre alla flipped classroom, è stato il cooperative learning con il team building e open mindness. La figura professionale ideale è quella che sa operare in un gruppo e per il gruppo, e che di fronte ad un problema (l’equivalente lavorativo della domanda) individua le linee di indagine primarie, e sa indirizzare le energie proprie ed altrui alla ricerca della soluzione e/o strategie e/o risorse necessarie, correggendo continuamente la traiettoria di movimento. Ma — e si tratta di un “ma” dal peso notevole — questa persona davvero “non ha bisogno di ricordare nulla”?  

In realtà, la figura professionale ideale ricorda molte cose; ha molte conoscenze, certo non tutte quelle di una Google search, ma le conosce indipendentemente dall’accesso a Google, e non certo per errore di formazione (cresciuto a lectures e compiti tradizionali, sarebbe imbottito di nozioni); al contrario, l’accesso del cervello umano ad informazioni esatte e circostanziate a velocità istantanea lo rende un soggetto lavorativo altamente efficiente.

Mettere in mano al quindicenne il suo smartphone senza elaborare precedentemente un progetto educativo dove le risposte alle domande non siano su Google, potrebbe voler dire far perdere entro vent’anni al paese la sua forza lavoro.