Dall’ultimo convegno di AlmaDiploma dedicato a “Educazione alla scelta e orientamento” e dall’ultimo rapporto curato dall’associazione veniamo a sapere che il 34 per cento degli studenti di scuola superiore dichiara che, potendo tornare indietro, cambierebbe indirizzo di studi. In effetti, orientarsi sull’indirizzo di studi da prendere dopo le medie (pardon, scuola secondaria di primo grado: il gergo burocratico allunga i titoli) è sempre stato difficile, a onor del vero, ma non a tal punto drammatico e perfino inquietante come negli ultimi vent’anni. Voglio mettere le mani avanti: so bene che esistono istituti scolastici (talora si tratta di singoli consigli di classe) che offrono esempi virtuosi e confortanti di percorsi di orientamento alla scelta della secondaria di secondo grado. Ma una percentuale com’è quella riportata esige una lettura critica un po’ meno consolatoria.
Se guardiamo la cosa da un punto di vista, diciamo, procedurale, osserviamo infatti il combinarsi di due comportamenti distinti ma convergenti, sul versante delle scuole e su quello delle famiglie.
Da una parte, abbiamo i docenti delle classi terze, tenuti a esprimere entro il primo trimestre un formale parere — “giudizio orientativo” — sugli alunni, un giudizio che giunge per lo più tardivo (a ridosso di Natale) e che troppo spesso suona generico e puramente formale: “il ragazzo può affrontare questo o quell’indirizzo” et similia, così operando una mera proiezione degli esiti scolastici su quelli che si suppongono i requisiti occorrenti a un certo corso di studi superiore.
Va poi detto che la medesima maniera distante, protocollare, di trattare un passaggio delicato dell’età evolutiva si ritrova di frequente fra i docenti del biennio superiore, che fraintendono il loro ruolo: fanno i selezionatori dei migliori (come negli sport agonistici) oppure i giudici dei buoni e dei cattivi, di chi va bene o va male (nel “profitto”: occhio al termine aziendale!), anziché fare gl’insegnanti, quelli che per ruolo, professionale e istituzionale, sarebbero chiamati a introdurre gli adolescenti al sapere, sostenendo il loro desiderio di conoscere. Certo, il sapere è difficile, ma, come Ulisse, la ragione umana è mossa dal desiderio di ciò che non sa: ci vuole un maestro che te lo di-spieghi, ti conduca fin là, e te ne faccia sentire il sapore.
Dall’altra parte, ci sono (quando va bene) i genitori, sempre più ansiosi circa il futuro dei loro figlioli, condizionati come sono dalle parole d’ordine del mainstream che pervade il pensiero sociale, e che si riassume nella magica parola, rigorosamente English: “performance”. Performance è qui presa nel ristretto ma esclusivo significato di “prestazione”, cioè dell’abilità tecnica volta a ottenere successo, in tutti i campi, a tutti i livelli, a tutti i costi.
L’ossessione del successo, per ora scolastico, è del resto alimentata da un pensiero dominante nella pedagogia e nell’economia, largamente pompato dalla stampa e sostenuto al livello ministeriale, secondo il quale la realtà lavorativa è tout court la realtà (ma poi, di che lavoro si tratta: quello di oggi o del 2023 o del 2028?). Dunque, ciò che si studia o che comunque si fa a scuola, realtà non sarebbe — non è —; a meno che non sia impostato a imitazione del modello organizzativo e parcellizzato del lavoro industriale. In ultima analisi, dev’essere “utile” e finalizzato a un prodotto al di là della conoscenza acquisita, al di là del piacere di conoscere la realtà nel suo orizzonte universale, per sé stessa e per la gioia della scoperta del mondo e di sé.
Tale osservazione, lungi dall’essere qui fuori tema, ha serie, intime ripercussioni sull’idea e sul modo stesso di concepire il quadro degli studi. Se il modello è dunque la ripartizione del lavoro, l’analiticità dello studio delle discipline ne è la diretta applicazione educativa. E le materie di studio, se devono avere utilità pratica immediata, finiscono per ridursi a batterie di formule e procedure, in ultima analisi meccaniche e ripetitive, indifferenti se non estranee alla vita del ragazzo, il vero soggetto in gioco. E, per giunta, il discente resta tristemente solo col suo “apprendimento”, separato in classe da quella che dovrebbe essere la comunità dei conoscenti, e che sovente si riduce a un mix d’individui aggregato dai social media, vero forum alternativo e più autorevole della scuola stessa.
Al contrario, anche un ragazzino uscito dalle elementari, non solo un adolescente (e non parliamo di un bambino!), ha la naturale esigenza di un senso vasto e unitario dell’essere delle cose, di come stanno le cose, così che il conoscerle nella loro verità gli darà la percezione e il compiacimento (adulto) di abitare il mondo. E gli darà il senso fiducioso del crescere, ovvero, come afferma Luigi Giussani, di “crescere accorgendosi di crescere”. In ciò i docenti sono chiamati in causa in prima persona, come maestri, come quelli che hanno la tremenda e affascinante, sublime e grave responsabilità di aiutare i giovani virgulti a fare l’esperienza di scoprire l’universo — naturale, mentale, ideale — e non solo a “fare delle attività”: esercizi, prove, gite…
Troppo spesso, invece, proprio questo viene a mancare a scuola: una proposta che sia unitaria, che abbia il respiro largo della sintesi, una “ipotesi interpretativa”, un criterio intelligente e amico con cui, scoprendo i nessi tra saperi ed esperienza, affrontare il reale con cordiale intelligenza e mettervi a paragone la propria vita. Giacché è nella capacità di capire e di amare le cose e le persone che ogni esperienza di conoscenza del reale è infine accresciuta conoscenza di sé.
Ai fini del nostro tema, ove manchi questo, ecco affacciarsi la confusione concettuale, la reattività dei comportamenti, l’estraneità di professori che, per non essersi piegati sulle difficoltà dei loro alunni, per non essersi dimostrati maestri, non sono presi per tali. Ecco allora farsi largo il disorientamento dinanzi al mondo, quindi dinanzi alla scuola da scegliere. E allora si sfoglia la proverbiale margherita, si lancia la fatidica monetina nella speranza che Dio (?) ce la mandi buona, o più spesso si va a ruota degli amici, che — non si sa bene il perché — s’iscrivono a quel certo istituto.
Ma lo scenario non sarebbe completo se si tralasciasse un fatto di dimensioni sociali imponenti, un fatto che è ormai piuttosto condizione esistenziale dei (pre-)adolescenti e dei bambini: la solitudine (e l’isolamento) che tanti minori sperimentano ogni giorno dentro le loro case, vuoi perché i due genitori hanno un lavoro che li impegna fino a tardi, vuoi perché tanti di essi hanno genitori separati legalmente o di fatto, vuoi perché il clima domestico è impossibile. Fatto sta che, comunque la si veda, i grandi non se ne occupano, cioè non cucinano per loro, non li accudiscono, non sanno con chi stanno o che fanno o, semplicemente, non parlano con loro.
Come possono, ragazzini così, dedicarsi con calma, tranquillità, pazienza, ordine quotidiano a fare esperienza armoniosa e soddisfacente dello studio? Giacché lo studio — che nell’etimo vuol dire “dedizione”, “impegno amoroso” — esige non già uno sforzo improbo, caparbio, totalizzante, bensì appunto un’armonia di fattori e circostanze concomitanti, che si riassumono nell’esperienza dell’affetto dato e ricevuto: coi genitori, coi compagni, e anche coi professori. È documentato, e non soltanto dalla pratica di chi insegna, che al di fuori di un clima affettuoso — cioè di un ambiente educativo di adulti seriamente interessati alla crescita intellettuale, critica, morale, “competenziale” dei minori — questi non imparano e, immancabilmente, falliscono nella loro performance scolastica. E, soprattutto, non ne vedono il significato per la propria persona (e se si sommano i numeri di Almadiploma sul “ripensamento” alle percentuali di abbandono scolastico — oltre il 15 per cento al 2014 — non c’è da stare allegri: non è questione sociologica, bensì un dramma antropologico).
Ogni vera conoscenza è affettiva: è un’esperienza di amore ricevuto e penetrato nelle fibre della persona. Per questo, in un tessuto sociale quanto mai instabile, che Zygmunt Bauman ha chiamato “liquido”, e in cui perfino i legami primari vanno sfaldandosi e le vite di tanti uomini “non performanti” meritano di essere “scartate”, per le nuove generazioni ci vogliono scuole che siano ambienti solidi, corposi e familiari, pieni di adulti che siano maestri, i quali si facciano carico degli alunni colmando almeno in parte il vuoto comunitario da cui vengono. E restituiscano, svolgendo né più né meno il loro mestiere d’insegnanti, il senso vivo di una paternità, cioè di una guida e un accompagnamento certi, con la fiducia che si può stare al mondo a testa alta.