Il Sessantotto compie cinquant’anni. Auguri. Sono attese celebrazioni e candeline, ma soprattutto, si spera, riflessioni che ne rendano evidenti luci e ombre. Sarà interessante soprattutto osservare a quale livello sarà espresso, se sarà espresso, il dialogo tra le generazioni: quella che il Sessantotto l’ha fatto, quella dei figli che l’hanno subito e quella dei nipoti a cui sfuggono del tutto le relative coordinate spazio temporali e che della contestazione giovanile hanno magari la stessa percezione che si può avere di un pezzo da museo.
Cinquant’anni sono un tempo sufficiente perché di un fenomeno storico si rintracci la genesi causale; nello stesso tempo, si può dire che il Sessantotto ancora ci riguardi per alcuni effetti provocati dalla sua lenta decomposizione. Se ci riguarda, sarà avvincente in questo periodo di ricorrenza cogliere i termini con i quali parlare di quel passato che non passa a giovani alunni che sono molto schiacciati sul presente.
Del Sessantotto, infatti, di questo passato che non passa, è intrisa la nostra contemporaneità. Quella fase è indubbiamente una componente, tra le tante, dell’attuale crisi delle evidenze fondamentali, ma è anche indicativa di un possibile riscatto. Il Sessantotto ha insegnato, prima di puntare al potere dell’immaginazione o all’assalto del cielo, come si scriveva sui muri, a non fidarsi dei maestri o delle autorità che si presentavano come custodi di un sapere strutturato che avrebbe impedito il salto verso il regno della libertà: la famiglia, la Chiesa, la scuola.
Ma lo stesso sospetto finì per investire le grandi utopie che condensavano il messaggio salvifico del Sessantotto: la rivoluzione globale, la fine delle ingiustizie, la democratizzazione della didattica scolastica e universitaria. Il Sessantotto si è ripiegato su se stesso e ha diffidato delle sue stesse basi. Per dirla con categorie attuali, sarebbe come se oggi un’improvvisa e condivisa ribellione nei confronti dei principali motori di ricerca di Internet, cioè dei principali mediatori della cultura dominante, generasse un mondo di hacker che trasmettono informazioni non verificabili e buone solo perché corrispondono alla fantasia e agli istinti dell’utente. Ah, è quello che si sta già verificando? Bene: abbiamo stabilito un contatto con il mondo di ieri. Ripercorriamola dunque questa evoluzione.
Il Sessantotto cominciò quando la generazione dei padri che avevano fatto la seconda guerra mondiale, sconfitto il nazifascismo, assicurata la pace e il progresso universali, si trovò invischiata nella guerra in Vietnam, nella brutale repressione a Praga della svolta umanitaria del socialismo realizzato, nell’irrigidimento della didattica nelle scuole e nelle università del mondo occidentale. In Italia, nell’innalzamento delle tasse universitarie che parve uno schiaffo alla promessa di ampliamento degli accessi al sapere. La rivolta della generazione dei figli si cimentò nelle contestazioni, negli scioperi e nelle occupazioni che, dalla fine del ’67 e poi lungo tutto il ’68, incendiarono gli ambienti studenteschi collegandosi talvolta alle proteste operaie.
Fu una rottura, una cesura storica. Non solo per la profondità del solco che si stava aprendo tra padri padroni e figli sessantottini, tra istituzioni e vitalità giovanile, tra partiti e società, ma soprattutto perché il dissenso prendeva di mira un complesso di valori che orientavano la collettività alla meta finale del benessere materiale, si chiamasse in Occidente società opulenta o all’Est edificazione del socialismo reale. Lo stesso cattolicesimo che si era adattato alla realtà borghese, in qualche modo acquattandosi sotto la sua protezione, fu scosso profondamente. Come sappiamo, il grido e il disagio giovanili ebbero uno sviluppo in qualche modo inevitabile perché non trovarono interlocutori adeguati e furono incapsulati nell’ideologia. La rivoluzione culturale si tradusse a livello individuale, e questo i manuali scolastici non lo dicono, nella vittoria di Freud su Marx. Il filone anticapitalistico del Sessantotto partorì, in effetti, il terrorismo di destra e di sinistra, ma soprattutto, su basi massicce la cultura della liberazione delle pulsioni individuali: dalla pratica del libero sesso all’uso delle droghe. Sul piano internazionale, l’utopia socialista si spostò dal campo della deludente Unione Sovietica a quello della Cina e di Cuba. In quegli anni, a scuola e nelle università, si pretesero inderogabili scelte di campo. Chi in qualche modo si implicava con le pratiche alternative, prima di esprimere una qualunque opzione di carattere individuale doveva decidere da che parte stare.
Il Sessantotto ha rappresentato la più impressionante chiamata alla contrapposizione che mai si sia verificata in ambito giovanile. Molto più che durante la guerra mondiale, in cui erano possibili perplessità alla Pavese rispetto all’autenticità della Resistenza. No, qui ci si doveva pronunciare: o con l’America di Johnson e Nixon o con Mao; o con il movimento studentesco o con i fascisti. Il Sessantotto è stato così tradito nelle sue istanze originarie dalla frenesia di sciogliere il tempo della persona nell’organizzazione integralista della vita. Perché tradito? Perché rifluito nell’esaltazione, molto borghese, delle propensioni individuali che hanno finito per surrogare ogni richiamo alla natura comunitaria dell’uomo.
Come detto, da questa ubriacatura di individualismo non siamo affatto esentati, ancora oggi. Eppure il Sessantotto mostrandoci i suoi errori, i suoi infecondi imperativi categorici, la sua etica efficientistica ha riaperto nell’esistenza di tante persone, perfino di alcuni terroristi, la questione fondamentale che si riassume nella domanda: il senso della vita consiste nella programmazione del conflitto o non piuttosto nell’apertura alla possibilità che si realizzi il cambiamento del soggetto prima di ogni conseguenza operativa?
Sullo scoglio della novità del soggetto il Sessantotto si è arenato. Ma la stessa domanda urge in noi circondati da un mondo di fake news nelle quali ci specchiamo: la vita diventa affascinante perché “clicco su ciò che voglio” oppure perché rinasco ogni volta nello sguardo di un altro? Non è forse vero che il futuro sta nel “face to face”?