Fuochi verranno accesi per testimoniare che due più due fa quattro. Spade verranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate. Noi ci ritroveremo a difendere non solo l’incredibile virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, incredibile universo che ci fissa in volto. Così G. K. Chesterton di fronte all’avanzare di un’epoca in cui sarebbero crollate le evidenze più elementari. Che poi è la nostra, perché, come dice Papa Francesco, noi non ci troviamo oggi di fronte a un’epoca di cambiamenti, ma a un cambiamento d’epoca.



Verrebbe da dire, se non si trattasse di una così apparentemente piccola cosa, che la recente lettera di Gianni Mereghetti sull’uso degli smartphone nella scuola ne è una rinnovata conferma. Dunque, questa la tesi: non bisogna dire, come fa il ministro Fedeli, che gli smartphone s’hanno da usare perché ci sono e sarebbe dunque anacronistico non utilizzarli. No, dice Mereghetti: il loro uso in classe è da promuovere perché costituiscono un vantaggio, perché se a scuola si va per stare di fronte alla realtà, essi sono utili. Cioè incrementano la conoscenza della realtà che gli alunni possono acquisire.



Il ragionamento non fa una grinza: dopo aver criticato il ministro perché non dice a che cosa servono gli smartphone, pur annoverandoli tra le cose irrinunciabili, Mereghetti ci rivela la loro intrinseca vocazione. Inutile dire che attraverso quella piccola finestrella di vetro passano milioni di informazioni, ma colpisce che un esperto e profondo conoscitore del mondo della scuola e dei giovani scambi l’affastellamento, o se si preferisce l’ingorgo, di notizie per conoscenza, per esperienza della realtà. Egli stesso afferma che l’uso degli strumenti digitali offre agli studenti la possibilità di accedere, in tempi brevi, alle informazioni di cui si ha bisogno così da poterle giudicare in modo critico. Ecco qual è il punto: quel potere giudicare in modo critico le informazioni che così copiosamente ci giungono è proprio l’affare della scuola che nessuno smartphone potrà insegnare al suo posto. Tutte le informazioni del mondo non fanno un giudizio; tutti i dati del mondo non fanno un pensiero; tutti i fatti raccontati in rete non fanno un’esperienza.



Non c’è bisogno di Crepet per confermarlo, ma giusto qualche giorno fa in un altro articolo del giornale ci venivano ricordate alcune affermazioni riportate dal professore nel suo ultimo libro a proposito della scarsa inventiva e criticità del mondo digitale. Sarebbe utile parlare di cose concrete, come voleva lo stesso Mereghetti, citare qualche esempio: durante una lezione l’insegnante si può certo rendere conto di avere necessità di acquisire un’immagine, una fonte diretta, un testo a supporto del lavoro con gli alunni. Oggi lo può ricercare e condividere sulla Lim, con tutti i 48 occhi dei 24 alunni rivolti verso un unico punto; può chiedere loro di ascoltare Ungaretti che risponde in bianco e nero alle domande di un gruppo di ragazzi come loro; può aprire una pagina su cui appare un problema che si può continuare a risolvere lì, in mezzo a tutti, davanti a tutti. Certo che questi sono vantaggi. Anche perché poi ogni alunno potrà riprendere il lavoro con il suo bel computerino, che ha una tastiera e una dimensione più adatta al lavoro.

E lo smartphone? Lascialo spento, almeno qui, almeno adesso. La realtà è la faccia del poeta che insieme guardate, o quella impaurita e soddisfatta del tuo compagno che ti fa copiare il compito in classe. La voce del tuo professore che interpreta L’uomo dal fiore in bocca di Pirandello. E le foto dell’Islanda che hai visto scorrere sulla Lim le puoi andare a trovare più tardi con quello che vuoi. Che potrai gestire come vuoi. Anzi, come avrai imparato a fare grazie alla scuola, al pensiero che ancora ti abitua a sviluppare. Lascialo spento. Mica per paura, anzi: per conoscere di più la realtà. Conoscere, cioè comprendere, cercare di tenere insieme tutto in una visione globale di senso che hai fatto fatica a costruire nel tempo. E che non si apprende con un click e non si porta a casa nella tasca del parka. Ma te la porti dentro gli occhi e nel cuore come un tesoro, come l’acqua che il piccolo principe ha trovato alla fine di una faticosa giornata di cammino insieme all’aviatore.

Ecco, mi piacerebbe che fossimo tutti aviatori e piccoli principi e del deserto e del cielo avessimo l’esperienza terribile e dolce di uno sguardo che ci fissa in volto. Come voleva Chesterton. Ma forse è venuto il tempo delle spade per dimostrare che le foglie sono verdi in estate. Certo, sta cambiando un’epoca: chissà se c’è scritto sugli smartphone come fare a starci dentro davvero.