Docente del Liceo “Massimo” di Roma, il professor De Angelis, 53 anni, si è innamorato di una studentessa di 15. Ha flirtato con lei, l’ha coinvolta in un gioco di coppia sentimentale e fisico, l’ha letteralmente invasa fino al punto che la ragazza, anche se apparentemente a malincuore, ha preso il coraggio a due mani e lo ha denunciato. Scandalizzarsi è perfettamente inutile. Anzitutto perché in una società depauperata di geometrie sociali ciò che salta sono anzitutto i ruoli e i confini: tutto è lecito purché corrisponda a ciò che sento, a quello che provo, anche l’amore per una minorenne più giovane di ben trentotto anni. E poi perché è normale che esseri umani che condividono lunghi tempi e ampi spazi finiscano per intrecciare rapporti che trasversalmente coinvolgano la dimensione affettiva e intellettuale della persona. 



Eppure, è evidente a tutti, un problema sussiste, anzi due. È un problema, infatti, l’uso disinvolto della propria responsabilità educativa — e quindi della propria autorità — per sedurre e manipolare la vita fragile e in costruzione di un’adolescente. È un problema, inoltre, non rendersi conto che tutte le dimensioni legittime di un individuo si debbano esprimere in un contesto di realtà. Non scandalizza che ci si innamori o che si perda la testa: preoccupa che si abusi di un ruolo primario come quello del docente per esprimere una tenerezza e un’affettività sporca. Già, la sporcizia. Tutti la intuiamo, ma — di preciso — in che cosa consiste? 



Ciascuno, implicitamente o esplicitamente, sceglie sempre dove vivere la propria umanità. C’è chi la vive imprigionato nella propria infanzia, chi la coltiva rinchiuso nel proprio dolore, chi la fa crescere nei propri studi. Poi, infine, c’è chi la vive nella propria mente. La mente illude che tutto sia possibile, ha una forza che giustifica e conferma tutto. La tenerezza e l’affettività si sporcano ogni qual volta in cui non sono vissute nella realtà. È la realtà a dettare la misura e il confine di ciò che è legittimo e di ciò che è inopportuno: quando l’umanità trova casa nella mente o nei sogni, e rifugge dalla realtà, ecco che le azioni degli uomini possono alterarsi fino a diventare mostruose. Si può dire “ti amo” da mostri, da ostaggi dei propri pensieri e dei propri fantasmi. Non è che quell’amore non sia vero, ma è sporco, malato. E proprio per questo tende ad usare della realtà, e del proprio potere, per trasformare in reale ciò che è mentale.



Il problema del professore del Liceo “Massimo” è che tutte le dimensioni della sua vita non avevano una casa reale, dimoravano prigioniere nella sua mente. E questo porta a essere arroganti, a ritenersi onnipotenti, a considerarsi legittimati in tutto, giustificati dal pensiero malato che tutto spiega e sorregge. Vicende come questa sono il frutto avvelenato di un’epoca che ha deciso che la realtà fosse troppo angusta per meritare di essere vissuta. È quello che cercano i ragazzi con lo sballo, che cerchiamo anche noi con le nostre simpatiche “prese di posizione”: cerchiamo una casa, un luogo dove poter vivere. Da quando l’umano ha smesso di vivere nella realtà, esso ha trovato case alternative, è diventato vagabondo. E non c’è nulla che faccia più male che un amore da vagabondi, una tenerezza da senzatetto. Perché l’amore e la tenerezza illudono l’uomo di essere dei diritti da affermare oltre tutto e al di là di tutto. Salvo svelare la loro menzogna quando la sporcizia inizia a puzzare, quando un cuore — magari manipolato e incerto — ha il coraggio di dire, molto semplicemente, la parola “basta”.