Maria Luisa Iavarone, la mamma del ragazzo accoltellato a Napoli da una banda di minorenni, ha espresso molto bene “il sugo della storia” in una lettera al Mattino: “Gli aggressori di Arturo vivono in una eclissi di genitorialità che li fa annaspare ciecamente in un mondo senza adulti significativi che produce in loro una assenza totale del principio di autorità e che diventa senso onnipotente dell’impunità se, dopo la famiglia, anche la società e le istituzioni rinunciano a una sanzione adeguatamente severa di fronte a comportamenti devianti così gravi”. 



Con le loro crudeli imprese, questi ragazzi, come quelli di altre città italiane, esemplificano in vivo le conseguenze di un’educazione mancata. E a cosa serve l’educazione l’ha detto forse meglio di ogni altro Hannah Arendt in Tra passato e futuro: “Il bambino deve essere protetto con cure speciali, perché non lo tocchi nessuna delle facoltà distruttive del mondo. Ma anche il mondo deve essere protetto per non essere devastato e distrutto dall’ondata di novità che esplode con ogni nuova generazione”. 



Bambini, dunque, cresciuti respirando distruttività; e di conseguenza agendola sulle cose e le persone più indifese. Sarebbe però sbagliato pensare che una dinamica del genere sia esclusiva di ambienti economicamente e culturalmente deprivati, secondo una facile vulgata sociologica: ci sono anche i figli di genitori almeno apparentemente adeguati e senza problemi economici. Ed è altrettanto sbagliata, come ci ricorda Arendt, una visione dell’educazione tutta centrata sulle esigenze del figlio, che dimentica quelle della società in cui dovrà vivere; così come lo è una formazione scolastica ossessivamente imperniata su personalizzazione dell’insegnamento, bisogni educativi speciali, pedagogia del dialogo a tutti i costi, rifiuto ideologico delle sanzioni che sarebbero di per sé non educative. E di cui invece lamenta l’assenza la madre di Arturo, perché così stando le cose “chi spiegherà a quei ragazzi violenti, tornati a casa, che hanno sbagliato?”. Come lapidariamente ha scritto Leonardo da Vinci, infatti, “Chi non punisce il male, comanda che si faccia”.



Il senso di responsabilità, i doveri, il rispetto degli altri: ecco i grandi assenti della pedagogia degli ultimi decenni. C’è stato un tempo in cui l’adeguamento alle norme sociali delle nuove generazioni metteva spesso in ombra i bisogni affettivi dei figli, le loro attitudini individuali, la necessità di renderli progressivamente autonomi. Una disattenzione che soprattutto la psicologia ha contribuito a superare; ma spesso si è perso di vista, nel crescere esponenziale dei diritti, il rapporto del nuovo venuto col mondo. Se è facile allarmarsi per le situazioni in cui esplodono le violenze gratuite che fanno notizia, lo è molto meno rendersi conto del silenzioso ma devastante logoramento progressivo del tessuto sociale che la crisi dell’educazione ha già provocato e, continuando così, continuerà senza dubbio a provocare.

Non si tratta quindi solo di “rammendare” le periferie e di promuovere in ogni modo il lavoro e la preparazione al lavoro. Bisogna anche mettere al centro della politica il tema dell’educazione. Informando e sostenendo i genitori (anche attraverso il servizio pubblico radiotelevisivo), molti dei quali in balia di un grave disorientamento; facendo dell’impegno a far rispettare le regole una costante dell’attività di governo; promuovendo nella scuola la necessaria fermezza nell’esigere un comportamento corretto. E non si tema, su questo, l’impopolarità: ricordo che il recente sondaggio dell’Istituto Eumetra Monterosa, di cui ha parlato su questo quotidiano Giorgio Chiosso, rivela che quasi il 70 per cento degli italiani ritiene la scuola troppo poco severa sulla disciplina e giudica sbagliata l’abolizione della bocciatura col 5 in condotta. 

Infine, è essenziale che ogni cittadino adulto sia consapevole delle proprie, inevitabili responsabilità educative e le traduca costantemente in comportamenti e in un linguaggio che possano essere di esempio ai giovani.