Jun Choi è un ingegnere di 26 anni proveniente dalla Sud Corea. Ha vissuto sulla sua pelle l’invadenza di quello che le statistiche considerano uno dei migliori sistemi scolastici al mondo. Un sistema in cui gli standard sono altissimi e la motivazione al successo scolastico coincide con le aspettative di guadagno: fatale che chi “non riesce” venga considerato un fallito, e che si faccia (letteralmente) di tutto per riuscire. Jun ha avuto una brillante carriera scolastica e ha cominciato a lavorare come ingegnere. Ma nonostante il successo ottenuto, nella sua vita è suonato un “allarme rosso” e, inaspettatamente, una serie di incontri gli hanno aperto nuove prospettive: io l’ho conosciuto durante una cena con uno di questi amici grazie a cui ora dice di poter “contemplare chiaramente il suo futuro”. Se gli chiedi chi sia risponde che non lo sa ancora: “Sto lottando e affrontando la realtà che mi accade. Sono solo una persona che desidera scoprire il significato della propria vita”. E che ha scoperto cose che non disdegna di raccontare.



Jun, puoi raccontarci la tua esperienza di studente in Corea del Sud?

Per raccontare l’esperienza scolastica che ho avuto da adolescente, devo cominciare dal sistema educativo della Sud Corea. Esso ha un forte legame con la società. Significa che il modo in cui siamo cresciuti si basa innanzitutto su una opinione dominante, che tutti devono seguire a causa della forte influenza esercitata dalla società. Questa concezione mette la maggioranza degli studenti coreani sotto forte pressione. Fondamentalmente, l’opinione è che più alto è il livello che si raggiunge in università, maggiori sono le possibilità di successo economico, che è considerato il valore più prezioso nella società coreana.



E tu come ti sei inserito in questo contesto?

Guardando indietro a quei giorni in cui ero al liceo, non avevo una ragione forte per studiare. Stavo solo mirando al massimo livello in università. La scuola era come una fabbrica in cui tutti concorrono a realizzare lo stesso prodotto, metaforicamente parlando: gli studenti si impegnavano per diventare dei “prodotti che fanno soldi”. Io passavo tutto il giorno a scuola. Per esempio, mi alzavo alle 6.30 del mattino, le lezioni iniziavano alle 9 e finivano alle 17; poi dovevo studiare da solo fino alle 22, e non potevo non farlo. La cosa peggiore è che questo non basta: per raggiungere punteggi più alti, quasi tutti devono frequentare accademie private fino all’una di notte. Anche per me è stato così. 



E tu come hai vissuto questa situazione?

Come risultato di tutto questo, francamente, quando sono andato al primo anno di università, non sapevo nemmeno perché ero lì e cosa volevo essere. Quello che voglio dire è che non c’era nessun motivo per vivere. La vita universitaria era devastante e frustrante perché non avevo voglia di studiare la mia materia e non andavo d’accordo con le persone che erano lì. Fortunatamente, ho incontrato alcune persone che provenivano dalla comunità cristiana protestante e, anche se non ero cristiano, ho sentito in loro qualcosa di diverso. È stato un incontro inaspettato. Ho iniziato a unirmi alla loro comunità studiando la Bibbia, insegnando la Bibbia, condividendo la vita e aiutandoci a vicenda: questo mi ha permesso di iniziare il viaggio alla scoperta di me stesso, di cosa sono al mondo a fare e di quale sia il reale significato della vita. È stata dura, difficile, ma ha cambiato completamente la mia vita.

E poi?

Non appena mi sono diplomato, ho ottenuto un lavoro legato al mio professore. Dopo un po’ è suonato come un “allarme rosso” che mi ha fatto capire che il lavoro di ingegnere non faceva per me. L’ho capito perché mentre studiavo e lavoravo per alcune aziende con il mio professore, soffrivo a causa del lavoro che dovevo fare. Posso sicuramente dire che sono una persona a cui piace comunicare con gli altri piuttosto che lavorare davanti al computer. Così, ho deciso di lasciare tutto e andare a Dublino per studiare l’inglese e questa è risultata essere la migliore decisione che abbia mai preso. L’esperienza a Dublino è stata così profonda e intensa da permettermi di contemplare chiaramente il mio futuro.

Perché la definisci così intensa?

Posso dire per tre ragioni. Innanzitutto, ho potuto concentrarmi solo sul miglioramento dell’inglese per sei mesi, che è stato il primo obiettivo che avevo quando ho deciso di andare a Dublino. Inoltre, questa decisione è stata la prima che ho preso da solo senza alcuna pressione da parte dei miei genitori e altri conoscenti, per vivere una vita indipendente. In secondo luogo, ho incontrato alcuni amici assolutamente speciali e impressionanti, tra cui Giovanni. Se non avessi incontrato questi amici, la mia vita e la mia esperienza a Dublino non sarebbero state così positive. Grazie a loro, nelle nostre chiacchierate, ho potuto cercare il senso della vita. Alla fine, ho capito un punto di verità che attraversa l’essere umano, in ogni parte del mondo, ed è che tutti hanno bisogno di un amore che metta in moto nell’affrontare la realtà. Ripensando alla mia storia, il momento in cui sono stato toccato e impressionato tanto da poter continuare ad andare avanti nella mia vita si è basato sull’amore. E nel momento in cui ho potuto comunicare realmente con i miei amici c’è stato amore con tutto il cuore, e la certezza che io sono degno di essere amato, e che anche gli altri lo sono. Personalmente, penso che questa società moderna sia l’esito della perdita dell’essere uniti l’uno all’altro, il che rende le persone più ferite.

Cosa vuoi fare quando tornerai in Corea?

Il mio unico obiettivo è costruire, insieme ai miei nuovi amici, una scuola in Corea del Sud che possa mostrare a tutti che esistono modi alternativi di vivere e pensare, ma sappiamo che non è il momento giusto per farlo perché siamo poco esperti e qualificati nell’educazione. Quindi, abbiamo deciso di riunirci ogni settimana per approfondire la nostra idea. Personalmente, sto cercando di trovare un modo per diventare un insegnante, magari un insegnante coreano per stranieri. La ragione è che se non vivessi in modo diverso, non potrei insegnare ai miei studenti chi possono essere in futuro e come si può vivere diversamente.

Come ti immagini come educatore?

Beh, questa è una domanda piuttosto difficile perché sto ancora cercando di capire chi sono. Direi che tutta l’educazione che voglio portare avanti deve essere basata sull’amore. Senza amore penso che l’educazione non abbia senso. Le iniziative che prenderei verso gli studenti sarebbero ascoltare attentamente ciò che dicono e come esprimono se stessi, essere pazienti quando accadono a scuola eventi che potrebbero essere buoni o cattivi, far loro domande in modo che possano imparare il vero significato dell’apprendimento e trovare le risposte da soli. Eviterei di giudicare e limitare gli studenti, perché questo potrebbe diventare per loro molto violento. Loro hanno possibilità quasi infinite e ognuno ha la sua personalità e il suo valore.

Insomma vorresti a aiutarli a sviluppare ciò che c’è di buono in loro.

Sì, vorrei aiutarli a conoscere i talenti che hanno: questo è assolutamente cruciale, perché i talenti hanno qualcosa a che fare con il modo di vivere. Intendo dire che i doni che ci vengono dati hanno una stretta relazione con il nostro modo di vivere. In altre parole, i talenti in musica, arte, letteratura e eccetera sono realmente importanti quando le persone poi vivono le loro vite.

In un paese, la Corea del Sud, in cui la principale causa di morte tra i giovani è il suicidio, la passione educativa e le parole di Jun suonano come un inno alla vita.

(Daniele Ferrari)