Gli scenari della formazione e delle politiche scolastiche europee disegnati tra gli anni 80 e 90 sono da tempo sottoposti a un cauto e graduale, ma sostanziale, ripensamento. La prospettiva cosiddetta del survival kit (e cioè, secondo la definizione a suo tempo data da alcuni studiosi, un “paniere di conoscenze necessarie per la sopravvivenza”, composto da quanto i giovani in uscita dall’istruzione obbligatoria avrebbero dovuto possedere per essere in grado di svolgere un ruolo attivo nella vita sociale e nel mondo produttivo) è rivista alla luce di nuove esigenze e preoccupazioni riguardanti il futuro delle società del Vecchio Continente.
L’idea del survival kit rientrava, accanto a molte altre proposte, all’interno di un’azione politica ad ampio spettro finalizzata a rinnovare le pratiche scolastiche e formative europee ritenute troppo statiche e obsolete rispetto alle accelerazioni della vita sociale ed economica. Tale intento si proponeva di ridimensionare la centralità delle discipline nella gestione del sapere scolastico e di sviluppare indicatori riferiti a una nozione che cominciò allora a comparire – fino a diventarne egemone – nel linguaggio scolastico e della formazione: la competenza.
Norberto Bottani – che delle vicende qui brevemente richiamate è stato diretto testimone ed ha reso puntuale memoria in vari scritti – ha parlato del passaggio dagli obiettivi disciplinari alla logica delle competenze come di un vero e proprio “tsunami scolastico”. Dopo secoli di scuola centrata sulle conoscenze, l’alfabetizzazione civile dei giovani e la faticosa conquista del rispetto dei tempi di sviluppo degli allievi il baricentro si spostava sulla necessità che la scuola diventasse la palestra del sapere applicato e rendesse conto primariamente non più solo al sistema politico (in termini di coerenza rispetto ai valori ispiratori), ma anche – e forse soprattutto – a quello economico (in termini di funzionalità efficace).
Da qualche tempo emergono segnali che, senza beninteso negarlo, rettificano lo scenario che abbiamo tentato di riassumere nelle sue linee essenziali. Vedremo se si tratta di una virata semplicemente correttiva oppure anticipatrice di nuovi orientamenti.
Negli ambienti di Pisa, per esempio, la nozione di competenza viene interpretata in forma più ampia rispetto a quella centrata sugli apprendimenti (lingua, matematica, scienze). Si parla ormai di global competence. Essa (che per la prima volta sarà testata dal programma Pisa nel 2018) viene descritta da Andreas Schleicher come “un obiettivo di apprendimento permanente multidimensionale. Le persone competenti a livello globale possono esaminare questioni locali, globali e interculturali, comprendere e apprezzare diverse prospettive e visioni del mondo, interagire con successo e rispetto con gli altri e intraprendere azioni responsabili verso la sostenibilità e il benessere collettivo”.
I dati raccolti dalla rilevazione di Pisa 2018 dovranno offrire “un’opportunità tangibile per fornire alla comunità globale i dati necessari per costruire società più pacifiche, eque e sostenibili attraverso l’educazione”. L’obiettivo è quello di “creare ambienti di apprendimento che incoraggino i giovani a comprendersi l’un l’altro e il mondo al di là del loro ambiente immediato e ad agire per costruire comunità coese e sostenibili” e aiutare gli altri a combattere l’ignoranza, il pregiudizio e l’odio, che sono alla base del disimpegno, della discriminazione e della violenza”.
Non sono necessarie molte parole per cogliere il passaggio verso una nozione di competenza dai tratti molto più estesi e complessi di quella originariamente concepita nell’ottica cognitiva e del potenziamento dell’istruzione. Una ulteriore e significativa raccomandazione nella medesima direzione viene dal rinnovato interesse per lo sviluppo e il rafforzamento di quei tratti di personalità che possono condizionare la padronanza e la spendibilità del sapere.
A tal riguardo si trovano in letteratura denominazioni diverse come Non cognitive Skills, Soft Skills, Character Skills, Social and Emotional Skills che – seppur con sfumature diverse – sono accomunate dall’affermazione che campeggia a grandi caratteri sul sito di James Heckman: “Le abilità cognitive misurabili con i test sono una parte soltanto di ciò che determina il successo nella vita. Le abilità personali – ovvero il carattere proprio di ciascuno – sono ugualmente determinanti per il livello della retribuzione, per l’educazione e la salute e molti altri aspetti rilevanti della vita umana”.
Il nome di Heckman, il noto economista premio Nobel, è forse quello più conosciuto al grande pubblico per le sue puntuali ricerche che documentano la scarsa affidabilità predittiva dei test e la rilevanza della componente sociale ed emotiva nei processi di apprendimento e professionali.
Negli ultimi anni gli studi e le ricerche sulle Non cognitive Skills si sono moltiplicati fino alla ricomparsa (dopo un’eclisse durata decenni) della tematica dell’educazione del carattere. In sede Ocse-Ceri è attivo un gruppo di ricerca con il proposito di giungere a una definizione il più condivisa possibile delle Social and Emotional Skills sulla base della quale procedere quindi alla loro rilevazione e incidenza.
Il dato più interessante sotto il profilo pedagogico riguarda l’educabilità dei Big Five (estroversione, amicalità, coscienziosità, stabilità emotiva, apertura mentale e successive articolazioni più dettagliate come capacità di darsi obiettivi, perseveranza, ottimismo, gratitudine, intelligenza sociale, curiosità, ecc.). I tratti di personalità non sono infatti rigidamente prefissati: la ricerca contemporanea, in contrasto con le opinioni popolari, ha dimostrato che essi si sviluppano attraverso l’interazione di fattori personali e ambientali (cioè, l’apprendimento) e mostrano una notevole plasticità, specialmente durante l’infanzia e l’adolescenza. L’apprendimento socio-emotivo, non diversamente da quello finalizzato alle conoscenze e competenze, può dunque essere orientato e aiutato secondo interventi educativi.
Segnali di più avvertita sensibilità educativa con una specifica attenzione verso i diritti dei più piccoli giunge, infine, da un altro documento dell’Unione Europea, il Proposal for key principles of a Quality framework for Early Childhood Education and Care (2014, in traduzione italiana Un Quadro europeo per la qualità dei servizi educativi e di cura per l’infanzia: proposta di principi chiave) dedicato al rafforzamento e consolidamento dei servizi dedicati alla prima infanzia (0-6 anni), oggetto anche in Italia di un recente provvedimento legislativo nell’ambito della legge cosiddetta della “Buona Scuola”.
Il Quality Framework propone 10 principi a forte matrice pedagogica posti a garanzia della qualità della Early Childhood Education and Care come, per citarne alcuni, un’immagine di bambino portatore di diritti e protagonista dei propri processi di apprendimento, un educatore/insegnante incoraggiante, la partecipazione attiva delle famiglie nel definire la progettualità educativa del servizio, un approccio olistico che integra cura e educazione favorendo pieno sviluppo delle potenzialità di ciascun bambino in modo globale.
Rispetto a documenti precedenti il Quality Framework si distanzia dalla visione dei servizi per l’infanzia che ha a lungo dominato la scena della politica scolastica europea e cioè strumento per garantire principalmente le pari opportunità lavorative tra uomini e donne. Nel documento emerge, viceversa, in modo chiaro ed esplicito, la messa al centro del bambino quale soggetto di diritto: un cittadino a tutti gli effetti, cui va garantito il diritto all’educazione. I servizi per l’infanzia, l’impegno per renderne universale l’accessibilità e migliorare la qualità, vengono dunque riconsiderati e affermati all’interno di una cornice.
Forse non moriremo prigionieri della competenza.