Ha fatto discutere la dichiarazione del ministro Bussetti circa la ventilata abolizione del Fit, il percorso triennale di formazione iniziale dei docenti, introdotto con il DLgs. 59/17 e non ancora sperimentato. Secondo il ministro, si potrebbe accedere al concorso direttamente con la laurea, senza ulteriori periodi di studio e formazione.
A prima vista, sembra una riscoperta del modello gentiliano. Da qui, le polemiche sul ritorno all’indietro e su molte altre cose. Ovviamente, tutte frutto di supposizioni, visto che il ministro si è limitato a buttar lì un’idea, senza fornire dettagli su modalità e tempi.
Per una volta, non mi sento tanto in distonia con lui, ma dico: vediamo. Perché, tanto per cominciare, in altri paesi si fa così ed i risultati di apprendimento degli studenti non sono peggiori dei nostri, anzi. E poi, perché, in realtà, il ministro non ha fatto altro che prendere atto di quella che è la situazione di fatto.
Il nostro sistema scolastico, da vent’anni a questa parte, ha inventato almeno tre modelli di formazione universitaria post-laurea per l’accesso all’insegnamento, senza in realtà utilizzarne nessuno, perché, ogni volta, l’approvazione di un nuovo percorso era accompagnata dall’immancabile sanatoria. E’ stato così per le Ssis, e poi per il Tfa e ora, sembra, per il Fit. Di fatto, da sempre e con limitate eccezioni, si va in cattedra con la sola laurea, accompagnata dalla gavetta più o meno prolungata del precariato.
Se mai, quel che conta e su cui bisognerebbe concentrarsi è che cosa si intenda per “laurea”. In molti paesi del nord Europa, e non solo, per accedere all’insegnamento non è richiesta una generica laurea disciplinare, bensì una specifica laurea per l’insegnamento. Il relativo percorso incorpora una misura più o meno ampia di quel che noi chiamiamo “scienze dell’educazione” e spesso anche il tirocinio. E la durata può anche essere solo di 3 anni (un Bachelor Degree), oppure di tre più uno. A volte, il titolo richiesto varia con il livello di scuola in cui si pensa di insegnare: in questi casi, il Master Degree è previsto per gli studi secondari superiori. Si fa così in Gran Bretagna, ma anche in Svezia e in Finlandia.
Dato comune è che il piano di studi non mira a formare uno specialista della disciplina (ed infatti, si tratta di percorsi diversi da quelli delle lauree in lingue o matematica o fisica o altro). L’obiettivo non è quello di mettere le basi di un futuro dottorato di ricerca, ma di preparare un insegnante di una o più materie ad uno specifico livello scolastico. Insomma, chi studia in vista di una laurea in lingue o in matematica, si prepara a fare ricerca pura ovvero una professione di alto profilo in quei settori; chi punta alla laurea per l’insegnamento, si prepara a fare l’insegnante. Il che ha una sua logica.
Di fatto, nel nostro paese, il profilo degli studi richiesti a chi vuole solo insegnare è inutilmente sovradimensionato. Oltre la metà di quel che avrà appreso nei cinque anni (minimo) di una laurea specialistica gli servirà forse per l’abilitazione o il concorso, ma non per l’insegnamento. Qui sì che si vede ancora, in tutta la sua forza, l’eredità gentiliana: si richiede un approfondimento scientifico pari a quello di chi si prepara a diventare ricercatore, nell’assunto implicito che questa base sia utile per l’insegnamento.
Niente lo dimostra, anzi. E’ probabilmente un errore quello di non avere un percorso specifico pensato per diventare insegnanti. Insegnare è una professione, come fare l’avvocato o il medico o l’ingegnere: ma per ognuna di quelle professioni esiste un percorso universitario dedicato, mentre la professionalità insegnante in sé non ha un tale percorso. Quando va bene, è il sottoutilizzo di una competenza diversa. E quando dico “diversa”, intendo proprio “diversa”: non una gradazione minore o maggiore della stessa.
Questa è probabilmente una delle ragioni per cui gli insegnanti stentano sempre di più a fare il loro lavoro. Formati per la ricerca “pura”, non trovano le parole e gli argomenti per insegnare a studenti il cui interesse prevalente è l’acquisizione di competenze spendibili nella vita pratica e non l’approfondimento teorico. Ed anche il tempo speso a studiare — sempre a livello universitario — le scienze dell’educazione non migliora molto le cose: quel che servirebbe sarebbe un buon tirocinio, che trasmetta loro le migliori pratiche didattiche, non una quasi-laurea in pedagogia o psicologia.
Queste considerazioni, secondo me, vanno nella direzione della proposta del ministro; purché quello che egli ha in mente sia appunto una laurea specifica per l’insegnamento: ciò che una volta — ed in molti paesi ancora oggi — si chiama Scuola Normale. Una sede universitaria in cui la disciplina sia appresa solo nella misura utile per insegnarla. Un percorso che incorpori fin dall’inizio le teorie e le pratiche necessarie per essere insegnanti efficaci ed anche consistenti esperienze di tirocinio nelle scuole: sia pure, inizialmente, in affiancamento.
E dopo? Il ministro sembra pensare al concorso in senso tradizionale: chi lo supera va in cattedra, chi non lo supera lo rifà la prossima volta. Così facendo, si creerebbe nuovamente una sacca di precariato, che intanto vive di supplenze e poi chiede la sanatoria. Io guarderei ancora una volta a quel che accade in altri paesi, anzi in buona parte del mondo, compresa quella Finlandia che è stabilmente ai vertici delle classifiche.
Chi acquisisce la qualifica di insegnante abilitato presenta la candidatura presso una o più scuole, svolge un normale colloquio di lavoro e viene assunto: inizialmente a tempo e poi in ruolo. Si dirà che altrove questo è possibile perché non c’è la folla di aspiranti che c’è da noi. Forse è vero: ma non ci si chiede abbastanza quale sia la causa e quale l’effetto. Forse la pletora di candidati che noi conosciamo è dovuta alla tenace illusione che il “posto di Stato” sia una comoda sinecura o abbia comunque un livello di garanzia che l’impiego privato non offre. Se il rapporto fosse, in modo dichiarato e trasparente, di diritto privato, forse perderebbe una parte del suo appeal e le file si accorcerebbero. E, in ogni caso, se ci fossero delle lauree dedicate all’insegnamento, si potrebbero creare dei filtri in ingresso, con politiche di numero programmato, come quelle già esistenti per altre professioni. Cosa che non si può fare per una laurea non dedicata ad una specifica professione.