Lo sviluppo molto recente delle neuroscienze ha avuto una serie di conseguenze interessanti, ma, come molti studiosi evidenziano, ha comportato anche la creazione di quelli che vengono definiti “neuromiti”, cioè convinzioni apparentemente scientifiche ma in realtà non fondate su evidenze incontrovertibili, che rischiano di creare aspettative e illusioni indebite.
Le neuroscienze hanno il grande merito di renderci consapevoli dell’esistenza e soprattutto del funzionamento del cervello: un cervello che si forma nella fase fetale e che nei primi anni di vita dispone di un numero di neuroni estremamente elevato, molto più elevato di quello presente nelle successive fasi della vita, il che fa comprendere le straordinarie capacità di apprendimento durante la prima infanzia.
Ma negli insegnanti la piena consapevolezza del fatto che i bambini hanno un cervello è ancora tutta da costruire; e invece occorrerebbe che essi ne conoscessero non solo la struttura ma anche le modalità di maturazione e il funzionamento alle diverse età. Per convincersi di ciò è sufficiente considerare che proprio la maturazione della corteccia frontale, verso i sei anni di età, e la conseguente possibilità di iniziare a utilizzare le funzioni esecutive, consente di capire perché in tutti i paesi e in tutte le culture la lingua scritta si apprenda a partire all’incirca dai sei anni.
Comunque la vera sfida sta nell’essere consapevoli che ogni nuovo apprendimento non cambia soltanto il patrimonio di conoscenze e abilità, ma determina una modificazione della struttura biologica del cervello. Esistono in proposito immagini molto efficaci che mostrano come col crescere dell’età crescano anche le connessioni tra i neuroni. Ed è forse proprio questo riferimento biologico a far comprendere quella legge fondamentale evidenziata da molto tempo dalla psicologia dello sviluppo secondo cui il bambino “più si sviluppa, più apprende, più ha la possibilità di realizzare sviluppi e apprendimenti ulteriori”.
Questo non deve significare lo spostamento totale dell’attenzione dall’insegnamento all’apprendimento, come invece si sente spesso affermare, anzi, il ruolo dell’insegnamento (e la conseguente responsabilità dell’insegnante) viene ad essere accresciuto, se si intende l’insegnamento come la predisposizione “pensata” e organizzata delle condizioni necessarie per poter apprendere.
Tanto meno è necessaria la nascita di una nuova didattica, come invece alcuni editori cominciano a proporre. Non sono cioè necessarie attività completamente diverse da quelle che la scuola ha finora proposto, perché tutte indistintamente le attività proposte ai bambini hanno sempre avuto effetto sul cervello. Solo che non lo sapevamo. Quindi ogni tipo di didattica incide sullo sviluppo del cervello. Il problema sta nel fatto che ciò non sempre avviene in modo positivo. Occorre perciò riflettere sull’effetto che ogni attività possiede, su che cosa consenta di sviluppare e, soprattutto, in quale momento debba essere proposta.
Le neuroscienze hanno ad esempio evidenziato come nei bambini piccoli, nella prima infanzia, esistano “domini privilegiati di apprendimento” riscontrabili in tutte le culture, i quali spiegano non solo la particolare predisposizione ad apprendere determinati contenuti ma anche la particolare attenzione di cui i bambini piccoli sono capaci. Quindi anche nel bambino piccolo l’apprendimento è molto meno casuale e molto più consapevole di quanto possa sembrare. I domini privilegiati sono riferiti a una serie di “conoscenze di base” (core-knowledge) che convergono su alcune ampie categorie, costituite dai concetti fisici e biologici, dalla causalità e dal numero. Ad esse si aggiunge il linguaggio, che quindi è il dominio privilegiato per eccellenza, inteso non soltanto come mezzo per comunicare ma come strumento cognitivo potentissimo. Le competenze linguistiche dei bambini piccoli sono straordinarie, in particolare se si pensa che alla nascita un neonato si trova a “navigare in un mare di suoni” e che in poco tempo riesce a distinguere i rumori dalle voci umane e tra queste la voce della mamma. Ma in particolare le neuroscienze hanno evidenziato come il linguaggio non venga appreso per semplice imitazione: il bambino, infatti, “costruisce” i nomi e quando, verso i due anni, ha appreso il meccanismo di costruzione, il suo linguaggio subisce uno sviluppo rapidissimo, tanto da permettergli di essere, a tre anni, un fine conversatore.
Non si tratta di aspetti che riguardano esclusivamente la prima infanzia. I domini privilegiati di apprendimento continuano a essere presenti anche nei primi anni della scuola primaria e ciò dovrebbe indurre a non parlare di “predisciplinarità” nella prima e seconda classe, perché l’interesse continua a essere indirizzato verso quelle categorie che non si riducono a strutture disciplinari.
Fare riferimento a come funziona il cervello dovrebbe soprattutto comportare il superamento definitivo del libro di testo inteso come sequenza rigida di apprendimenti. Il libro di testo è una memoria esterna, da consultare e utilizzare in caso di bisogno, a cui si ricorre quando la memoria biologica non è in grado di ricordare un elevato numero di informazioni. Solo se l’insegnante conosce quelle che vengono definite come “traiettorie di sviluppo” dei bambini può proporre le attività e i contenuti più adeguati, secondo una sequenza che nasce dall’osservazione del bambino e dalla comprensione dei suoi comportamenti, comprensione resa più profonda dalle neuroscienze.
Devono indubbiamente essere creati dei “ponti” tra neuroscienze e scuola. La costruzione di questi ponti richiede in pari misura il contributo dei ricercatori e degli operatori sul campo, cioè degli insegnanti. Non è possibile, infatti, tradurre automaticamente i risultati delle ricerche scientifiche in attività didattiche. Questi “ponti” devono però partire da un assunto a cui finora si è dedicata scarsa o comunque insufficiente attenzione: l’apprendimento scolastico è profondamente diverso da ogni altra forma di apprendimento e soprattutto avviene secondo modalità profondamente diverse. Occorre ricordarsi di Vygotskij: solo l’apprendimento della lingua scritta (che si realizza pressoché esclusivamente a scuola) permette di sviluppare quelle funzioni psichiche superiori necessarie per vivere appieno nel proprio mondo. Su queste funzioni superiori le neuroscienze stanno gettando una luce profonda.