C’è un rapporto dettagliato in base al quale il ministro Bussetti ha deciso di ridurre l’alternanza scuola-lavoro? Quanti sono gli insegnanti e i dirigenti inadeguati? Qual è la situazione della disciplina nelle classi? Come funziona l’insegnamento della nostra lingua agli allievi stranieri? Cosa sanno i ragazzi di storia, geografia, Costituzione al termine degli studi secondari? Quanti non scrivono correttamente in italiano?
Sono alcune delle domande che si dovrebbe porre chi si interessa di scuola; e a maggior ragione dovrebbe farlo chi la scuola è chiamato a governare sulla base di una solida conoscenza dei problemi e di una verifica dei risultati dei provvedimenti presi. Purtroppo la scuola italiana indaga poco se stessa; e per di più, come altri settori dello Stato, è refrattaria alla cultura del controllo. Che dietro al perdurare di questa mentalità ci siano spesso i sindacati, con i loro riflessi corporativi, non può che rendere ancora più amara la constatazione della realtà.
Come sappiamo, per la valutazione del sistema educativo è stato creato l’Invalsi, che si è occupato in prevalenza di comprensione del testo, problemi matematici e padronanza dell’inglese. Da quando è stato creato è stato bersaglio di critiche severe, tra cui quelle acuminate del professor Giorgio Israel, che però precisava di non essere né contro le prove Invalsi, né contro l’istituto in quanto tale, a condizione che fosse possibile una discussione aperta sui contenuti delle prove, che si definissero con chiarezza gli scopi dell’ente e che esso non fosse una struttura poco trasparente e chiusa a competenze esterne. Quanto alle prove, Israel affermava giustamente che dovessero puntare solo all’accertamento delle conoscenze e delle abilità imprescindibili per ogni livello di scolarità e non di competenze complesse, per cui non sono adatte. Al di fuori di questi limiti c’è il pericolo, rivelatosi reale negli Usa, di orientare la didattica in funzione dei test, con relativo smercio di eserciziari ad hoc. Tanto meno si può pensare che si tratti di strumenti adatti a valutare i singoli docenti.
Ad ogni modo, la constatazione che il “teaching to the test” non si è per il momento verificato su larga scala sembra aver tranquillizzato la maggior parte dei docenti; fra i quali, però, rimangono minoranze combattive che si oppongono alle prove Invalsi, anche per timori in parte irrazionali dovuti più che altro alla poca chiarezza iniziale circa possibili ricadute sull’autonomia delle scuole e addirittura sui singoli insegnanti.
Purtroppo per valutare il nostro sistema scolastico non ci possiamo affidare neppure agli esami, ridotti peraltro nell’intero ciclo scolastico solo a due. Specialmente quello detto un tempo “di maturità” offre un quadro davvero poco credibile. Capita come sappiamo che in alcune regioni del Nord i 100 e i 100 e lode siano in netta sproporzione rispetto ad alcune regioni del Sud, dove i voti massimi abbondano. Nei test Invalsi e Pisa, invece, le stesse regioni si posizionano agli ultimissimi posti. Con tutti i dubbi sui test, è difficile non pensare che si usino criteri di valutazione troppo diversi. Per questo da anni le università non tengono conto del curriculum scolastico per le ammissioni ai loro corsi. E sempre più spesso neanche il mondo del lavoro seleziona i giovani sulla base dei voti ottenuti all’esame di Stato, voti sempre meno credibili anche per la colpevole compiacenza di certi professori e presidenti di commissione che non impediscono ai ragazzi di copiare e a volte prendono addirittura l’iniziativa di aiutarli. Anche per questo è indispensabile controllare e confrontare i risultati, perché solo in questo modo sarà possibile adottare una politica scolastica in grado d’impedire il declino del sistema formativo.
Esemplificativo a tale proposito l’appello dei 770 docenti universitari a favore di un serio intervento per migliorare negli studenti le competenze della lingua italiana; che, grazie anche alle testimonianze dei firmatari, abbiamo scoperto essere gravemente e diffusamente carenti. Accanto a un ripensamento delle Indicazioni nazionali, l’appello chiedeva l’introduzione di verifiche periodiche nazionali durante il primo ciclo; ma da questo orecchio il ministero non ci sente.
La difficoltà di operare una valutazione generale dei risultati dipende anche dall’assenza, forse non casuale, di un corpo ispettivo all’altezza delle necessità. Nel Regno Unito, oltre alla Naa – National Assessment Agency (Agenzia nazionale per la valutazione), che produce e somministra i test nazionali, esiste l’Ofsted, un dipartimento indipendente — a garanzia di imparzialità — che, disponendo di un gran numero di ispettori, ogni settimana esegue centinaia di visite nelle scuole e pubblica i risultati on line.
In Italia negli ultimi anni ne sono stati reclutati un centinaio in base al curriculum dei candidati, ma il numero degli ispettori, anche con i nuovi ingressi, continua a essere irrisorio; senza contare che quelli assunti recentemente sono quasi tutti utilizzati come responsabili degli uffici scolastici periferici. È anche per questa grave carenza che è tra l’altro molto difficile porre rimedio alle situazioni di particolare inadeguatezza di docenti e dirigenti scolastici. Per far fronte, almeno provvisoriamente, a questa lacuna, il ministero potrebbe reclutare, previa accurata selezione, personale scolastico in pensione disposto a svolgere funzioni ispettive e in generale utilizzare tutti i possibili strumenti per verificare a campione la credibilità dei risultati ottenuti dalle scuole e in particolare quelli degli esami di Stato.