La proposta di abolire il valore legale del titolo di studio, vista con favore da M5s e Lega, sta circolando da quest’estate nelle aule parlamentari ed è già stata commentata sui maggiori quotidiani, ma tocca un aspetto del nostro sistema di istruzione che va considerato con molta attenzione. La proposta viene presentata come un favor perché tutti possano partecipare ai concorsi pubblici, una sorta di passe-partout a favore dell’occupazione giovanile, l’abolizione dell’ennesimo privilegio di cui godono le classi abbienti e che sfugge invece a quelle più deboli, meno fortunate. Solo occasionalmente appare l’altro motivo che potrebbe sottostare alla proposta, quello di favorire la competizione tra gli atenei, visto che — come è ben noto — certe lauree in certe sedi sono il presupposto per la disoccupazione mentre altre sono altamente richieste e, anzi, ne servirebbero ben di più.



Ora, pensare di favorire l’occupazione e, allo stesso tempo, promuovere la competizione tra sedi universitarie sono due scopi che difficilmente possono essere raggiunti con un solo provvedimento di abolizione, che tocca solo la fine del percorso formativo, sperando in tal modo di colmarne le lacune. Invece una riflessione seria sulla formazione nostrana dovrebbe partire da lontano, prendendo in considerazione le origini dei problemi che la affliggono, il primo dei quali è l’insufficienza del secondo canale formativo, quello delle scuole professionali statali e regionali, che vanno potentemente riformate per dare ai giovani un accesso realmente più solido al mondo del lavoro.



Non a caso, è proprio questo potere che viene richiesto dalle Regioni che stanno attivando i processi di attuazione del regionalismo differenziato: Veneto, Lombardia ed Emilia hanno chiesto al governo di diventare protagoniste della riforma della scuola professionale acquisendo poteri e finanziamenti che sono ancora nelle mani del potere centrale. E di rafforzare i percorsi di terzo livello nell’ambito di tale formazione, con “lauree” brevi o lunghe che siano ma che formino quello che serve oggi alle imprese e al mercato.

Secondo step riguarda l’orientamento, in stretta connessione con il mercato del lavoro: ancora troppi giovani si iscrivono all’università senza essere a conoscenza di quali sono le prospettive occupazionali. E ove sono stati inserite limitazioni alle iscrizioni  (numeri chiusi, test autovalutativi, eccetera) esse presentano limiti evidenti, essendo limitati gli accessi alle professioni che invece richiedono professionisti (emblematico l’esempio dei medici) e aperti quelli che finiscono per essere una sorta di cul de sac. 



Terzo step: la valutazione dei corsi di laurea e delle sedi universitarie. In questo settore sono stati fatti dei passi ma spesso la valutazione ridonda in procedimenti di tipo burocratico, formali e non capaci di mettere in evidenza l’eccellenza o gli squilibri. Mentre la valutazione è un procedimento conoscitivo, che deve aiutare i valutati a migliorare le proprie performance e non a sfinirli con adempimenti. 

Ora, se in questa situazione si propone di abolire il valore legale, si finisce per mettere un coperchio ad una pentola senza guardare quello che sta cuocendo al suo interno, dando per scontato che il contenuto sia una pietanza bruciata. E, infatti, non basta la competizione: occorrono strumenti per favorirla (orientamento fatto bene, placement resi noti, programmi innovativi da mettere in cantiere, corsi di studio che stimolino i ragazzi e non li opprimano con un sapere già vecchio nei metodi e nei contenuti). Parliamo dunque seriamente dei nostri percorsi formativi, capendone il valore e i limiti, senza fare di ogni erba un fascio.