Dopo il primo test a quiz, che ha selezionato 8.240 candidati su 38mila, il 18 ottobre sarà la volta della prova scritta, comprensiva di una verifica della padronanza di una lingua europea. Dopo la seconda tappa del tortuoso iter del concorso per dirigenti scolastici, solo più di metà saranno ammessi alla prova orale che comprenderà anche una prova di informatica.



Si giungerà, allora, a una graduatoria nazionale, per merito e titoli, di candidati che verranno ammessi a un corso di formazione dirigenziale fatto di due mesi di formazione generale (svolto presso un’università) e di quattro mesi di tirocinio selettivo svolto presso scuole scelte dagli Uffici scolastici regionali. Tutto il corso di formazione si concluderà con un’altra prova scritta, dalla cui valutazione emergeranno gli ammessi all’ultimo colloquio finale, dal quale a sua volta, anche in base ai titoli di merito presentati nella prima fase, scaturirà una nuova graduatoria generale di merito, composta solo dal numero esatto dei posti messi a concorso: 2.840.



Parlare di corsa a ostacoli è usare un termine gentile e benevolo: non esiste nessun Paese occidentale sviluppato dove l’ammissione alla professione della direzione di scuole preveda un simile percorso selettivo: il tutto per scegliere presidi che, nelle intenzioni del precedente Governo, dovrebbero essere nominati in ruolo prima del settembre 2019. Ma, anche a causa degli enormi ritardi accumulati dalla stessa amministrazione scolastica e dai governi degli ultimi otto anni, questo è tecnicamente impossibile! Senza considerare, poi, che il buon esito del concorso sarà pure condizionato dall’italico strascico di ricorsi. Basta ricordare che l’ultimo concorso che ha mandato a scuola dirigenti scolastici statali risale al 2011 e la procedura ha impiegato anni proprio a causa di ricorsi infiniti.



Nel frattempo, dal 2009 migliaia di scuole, con l’infausto istituto delle reggenza, sono dirette da un preside a mezzo tempo, al quale si chiede non solo di governare centinaia di docenti e non docenti, ma pure di rispondere della sicurezza degli edifici, dei risultati formativi degli alunni, della relazione con migliaia di genitori, del reperimento di centinaia di aziende per i tirocini di lavoro nelle superiori, di provvedere alle pratiche di carriera di tutto il personale, compresa la pensione: solo per citare le incombenze più rilevanti. Il tutto con la possibilità di scegliersi solo due collaboratori!

Una professione tanto martoriata in questi anni quanto cruciale (lo dicono fior di ricerche internazionali) per la qualità e l’efficacia della formazione che avviene a scuola.

Pare che di questi guai del concorso (oltre che della sproporzione tra spesa e risultato) si sia accorto il nuovo ministro; ma, dalle dichiarazioni lette, sorge qualche dubbio. A un congresso delle scuole paritarie (!) avrebbe detto che per ridurre i posti vacanti di preside nelle scuole statali si provvederà… riducendo il numero delle scuole! Cioè accorpando più sedi fino ad avere istituzioni di 2.500-3.000 alunni, con plessi (succede già ora) dislocati in un raggio di 80 chilometri.

Forse, qualche giorno dopo, la dichiarazione aveva suscitato perplessità; infatti abbiamo successivamente letto, sempre dal ministro in un’intervista a un quotidiano, come, per fare in modo che a settembre 2019 i presidi vincitori vadano effettivamente a scuola, si stia studiando il modo di accorciare l’attuale concorso e nel frattempo bandirne velocemente un altro. L’accorciamento (pare) avverrebbe trasformando l’anno di prova della nomina in ruolo in anno che coinciderebbe con il corso di formazione e con tirocinio. Ma per far questo sapranno al ministero che occorre una modifica di legge, cosa che non mi pare tanto facile, vista l’aria che tira per il Parlamento e per la scuola?

Che fare allora? Disal ha presentato al ministro proposte chiare: fare la modifica legislativa necessaria entro novembre; bandire immediatamente un altro concorso perché, ammesso che si giunga alla nomina in ruolo prima di settembre 2019, a quella data saremo daccapo con un altro migliaio di posti che si renderanno nel frattempo vacanti; dare immediatamente l’esonero totale dal servizio a docenti esperti che fungano da collaboratori al dirigente della scuola dove è nominato reggente. Queste proposte hanno però il difetto di misurarsi con un’esigenza di tempismo molto difficile da reperire.

A meno che il coraggio politico sia tale da realizzare una norma che attui veramente l’autonomia (quella che sta tanto a cuore alla Lega) e trasformi il concorso per il reclutamento dei presidi nelle scuole statali da concorso nazionale a concorso locale, come avviene già negli enti locali, nella sanità e nell’università.