La riforma dell’esame di Stato voluta dal ministro Bussetti apporta un consistente numero di novità, sfortunatamente molte nella direzione del colpo di spugna che annulla le disposizioni che, fino al comunicato del 4 ottobre del Miur, avrebbero dovuto far parte del “nuovo” esame di Stato; l’alternanza scuola-lavoro e la partecipazione alla rilevazione Invalsi sono i due “morti eccellenti” caduti sotto la scure del rinnovamento, il primo per difetti nell’attuazione dell’obbligo dell’Asl o più probabilmente per la decisione di dirottare le risorse dedicate all’Asl su altre voci di spesa, il secondo per una diffusa ostilità e mis-comprensione della natura della rilevazione o più probabilmente al suo essere progetto di altra fazione politica rispetto a quelle attualmente al governo.



La decadenza di Asl e Invalsi, se analizzata accanto alla revisione delle prove scritte (sul colloquio non si dice quasi nulla nei documenti prodotti dal Miur), suggerisce una lettura dell’esame di Stato in senso tradizionalista e revisionista, come la noticina in calce alla decisione di abolire il saggio breve chiaramente indica:



“Il tradizionale ‘saggio breve’, per quanto concepito con la lodevole intenzione di svecchiare l’apparato delle prove di maturità, andava incontro a due obiezioni: in primo luogo l’indicazione di citazioni disparate, talvolta numerose, induceva nello studente lo stimolo a redigere un centone, dal quale non si poteva evincere in nessun modo la sua capacità di sviluppare un discorso autonomo e ben strutturato; in secondo luogo l’argomento proposto avrebbe richiesto una preparazione specifica o almeno una documentazione, senza le quali era inevitabile cadere nell’impressionismo di giudizio”.



Lungi dal voler esaltare il progressismo che vede nel più nuovo e nel più moderno un valore in sé assoluto, non discutibile, lungi dal voler avvallare un servilismo intellettuale a modelli culturali non frutto della nostra tradizione, ed infine lungi dal non capire le preoccupazioni in merito alle debolezze espressive nella lingua madre che certo hanno motivato l’autorevole gruppo dei saggi, rimane tuttavia una leggera irritazione personale legata al ruolo sia di docente che di genitrice.

Come docente non posso approvare la “sospensione” di Asl e Invalsi dopo che energie e tempo sono state spese da studenti, personale scolastico e famiglie per capire cosa fossero, attivando  percorsi di realizzazione di Asl del tutto nuovi nei licei e fortemente incrementati nei tecnici e provvedendo a somministrare tutte le prove Invalsi previste per tutti gli ordini di studi. Ma come, siamo al traguardo e, così vicini, ci dite che il traguardo non conta più, che abbiamo corso per nulla, solo per il piacere di correre? Ma se basta il piacere di correre perché il premio è la soddisfazione del percorso, a cosa serve il traguardo dell’esame di Stato?

Se proprio si avverte la necessità di una revisione non sarebbe cosa ragionevole e opportuna applicare le revisioni non a chi è in dirittura di arrivo, ma a chi si accinge ad iniziare il percorso? Il sospetto che dietro la “sospensiva” di un anno si celi la sospensiva “ad infinitum” è reale, in una scuola dove un esame di Stato approntato in versione provvisoria (quello delle materie a scelta, per chi ancora ne ha memoria) durò abbastanza da maturare almeno due generazioni. 

Analogamente non può suscitare entusiasmo la revisione di una prima prova per studenti che, almeno per due anni del triennio, hanno lavorato proprio sul saggio breve per scoprire ora che non ci sarà e che ora dovranno nuovamente pendere dalle labbra del Miur per sapere come sarà la nuova prima prova, e non avendo anni di lavoro davanti, ma mesi. E che sarà della fusione di più materie nella seconda prova, visto che le materie di indirizzo rimangono invariate? Matematica e fisica allo scientifico potrebbe essere fattibile, ma altrove? Greco e latino al classico e due lingue straniere  in testo interlineare al linguistico? Gli esperti del Miur sapranno certo tirar fuori un nuovo coniglio dal cappello, ma docenti, studenti, presidi, famiglie, dovranno di nuovo aspettare che il Miur dica loro cosa fare.

Come madre di figli in età di esame di Stato, che hanno svolto simulazioni di terze prove nel triennio, fatto progetti per Asl, sostenuto tutte le prove Invalsi, e fatto tutte le esercitazioni di prima e terza prova previste dal consiglio di classe, tifo decisamente per il docente leggermente irritato, e ci aggiungo la preoccupazione di un esame sempre più indebolito nel suo peso numerico, passato da 75 a 60 punti, con il trasferimento del punteggio della defunta terza prova al credito scolastico. Già ora la percentuale dei non promossi all’esame di stato supera il 99%, le iscrizioni alle facoltà a numero chiuso si conquistano anche in quarta, per cui il voto dell’esame è ininfluente, ed ora, di fatto, conta di meno andar bene all’esame per avere un buon voto. Ma se l’esame conta poco, perché non abolirlo?

Perché si inizia nuovamente un processo di trasformazione della scuola dalla fine del processo, quando la fine del processo sembra avere perso anche quell’aspetto formativo della personalità legato alla condivisione coi compagni del lavoro delle ansie da prestazioni, diventando una pallida imitazione di quegli esami universitari che ormai si propongono per semestri, in parti, e che si preparano sulla base di appunti schematici, e non sulla lettura di libri?

Liberare la scuola dall’orpello dell’esame di Stato non ne risolverà tutti i mali, ma liberebbe energie, ora totalmente bloccate fra l’arrivo dell’onda progressista del cambiamento di Renzi e il revisionismo storico di Bussetti.