Contrariamente all’Italia, la Francia punta molto sull’istruzione e sulla meritocrazia. Fra i sociologi dell’educazione francesi c’è chi sostiene che la meritocrazia è semplicemente un modo per validare la superiorità dello stato economico-sociale. Averne. In Italia, infatti, siamo più spicci: contano direttamente le famiglie o le cordate.
Dunque, coerentemente con la loro impostazione, in Francia dopo lungo dibattito è stato introdotto l’obbligo per la fascia di età attualmente coperta dalla scuola dell’infanzia, la cui frequenza è opzionale.
I cultori della materia ricorderanno che una decina di anni fa anche il ministro Moratti cercò di anticipare, sia pure in modo molto più light. Apriti cielo! Per poco anche lei non ci rimise la poltrona, come successe al povero Berlinguer, che perse il ministero per mano dei suoi per aver cercato di mettere mano alla scuola media, nel tentativo generoso di aprire la gabbia ai nostri diciottenni. In Italia, in effetti, chi tocca l’esistente muore.
Ai tempi della Moratti qui da noi si scatenò la battaglia e i sostenitori della scuola dell’idillio infantile, dell’infanzia come regno dorato delle favole vinsero la tenzone contro i biechi funzionalisti, foraggiati da Soros, si direbbe adesso. Nel frattempo il cellulare e i suoi giochini spuntavano fra le fasce e a noi sono rimaste le stentate sezioni Primavera.
Tornando alla Francia, l’anticipo dell’obbligo è il figlio legittimo della idea novecentesca dell’uomo visto come potenzialmente perfettibile, una tabula rasa senza eredità biologica, soggetta solo ai condizionamenti socio-economici dell’ambiente. Si tratta, dunque, di decondizionare, di sottrarre la crescita del bambino ai contesti deprivati e di compensare attraverso la scuola ciò che non ricevono dal proprio ambiente. Negli Stati Uniti del dopoguerra questa teoria dilagò soprattutto, ovviamente, a proposito della comunità afro-americana. Ma anche gli allievi di don Milani stavano tutto il giorno con lui a scuola.
Recentemente i risultati di Pisa in alcuni Paesi hanno dato nuovo vigore a questa ipotesi. La Germania rimase nel 2000 traumatizzata dalla mediocrità dei suoi risultati: uno choc per un Paese che ha cominciato a leggere con la riforma protestante e che ha creato in Prussia nel Settecento il modello di scuola universale attualmente in circolazione nel mondo. Poiché, peraltro, il sistema tedesco è effettivamente meno precocemente scolarizzante di quello, ad esempio, francese, dando molta importanza all’accudimento materno nei primi anni di vita, si pensò di correre ai ripari generalizzando la frequenza della scuola dell’infanzia e alfabetizzando le fasce di età prima dei 6-7 anni.
Anche in Italia il tempo pieno alle elementari e il tempo prolungato alle medie nacquero con gli stessi intenti. E anche se l’entusiasmo scolarizzatore degli anni 70 e 80 si è oggi negli “asili” molto attenuato, i nostri bambini generalmente entrano alle scuole elementari con un’infarinatura alfabetica. Peccato che i migliori frequentatori ne siano i ceti medi delle città — Milano è la capitale del tempo pieno — che ne avrebbero meno bisogno.
Cos’altro si muove nel mondo su questo tema? Nel 2015 l’Onu ha adottato i Sustainable Development Goals (SDGs) per il 2030, fra i quali all’Obiettivo 4 (“Assicurare un’educazione inclusiva e di qualità per tutti”) si stabilisce che i bambini dovrebbero avere accesso a uno sviluppo di qualità nella prima infanzia, inclusa l’esperienza di ambienti positivi e stimolanti.
Il Progetto regionale sugli Indicatori di sviluppo infantile (Pridi) è uno studio condotto nel 2013-2014 su campioni nazionali di Costa Rica, Nicaragua, Paraguay e Perù, che ha identificato l’importanza di una misura chiamata “ambiente di allevamento” per lo sviluppo di capacità fondamentali per lo sviluppo di futuri risultati di apprendimento.
Un’altra analisi, usando i dati di Timss 2011, Timss 2015 e Pirls 2011 su più di 30 sistemi educativi che hanno partecipato, ha analizzato l’impegno in attività precoci di literacy, ottenendo risultati per certi versi scontati: in media esiste un rapporto fra livello di istruzione dei genitori, stimolazione culturale nell’età pre-scolastica e risultati di apprendimento degli allievi. Un elemento meno scontato sta nel fatto che, mentre nei Paesi partecipanti del Far East (Taipei, Singapore e Hong Kong), i genitori di più alto status stimolano i figli molto più di quelli di status più basso, nei Paesi partecipanti europei (Germania, Ungheria, Repubblica Ceca e Finlandia) ciò non sembra avvenire. Forse perché non ce n’è più bisogno? O perché si punta di meno sull’educazione?