La formazione degli insegnanti e il loro reclutamento nei ruoli dello Stato italiano è stato sempre terreno di riforme e controriforme dei politici di turno, nonché un bancomat per le università e gli atenei, sempre vittime di tagli di fondi o interessate ad autopreservarsi con il loro apparato.
L’ultima novità è la volontà dell’attuale governo di abolire una riforma approvata dal governo precedente: prima c’era una legge complessiva, ovvero la cosiddetta “Buona Scuola”, e un percorso triennale post lauream (il Fit) per diventare prof, ma ora si vuole una semplificazione del Fit dentro la legge di bilancio di fine anno.
Secondo il governo della “Buona Scuola”, per diventare insegnanti occorreva fare una sorta di slalom dopo 5 anni di università per il quale, come nella saga di Highlander, doveva rimanere solo uno. Vediamo come: nel Fit era previsto un primo anno, svolto in pratica nelle strutture accademiche, per prendersi la laurea/abilitazione, ma era pagato dallo Stato per 10 mesi con circa 600 euro lordi; nel secondo anno vi sarebbero stati momenti formativi integrati con il tirocinio nelle scuole e l’inizio di attività di insegnamento e supplenze brevi per assenze fino a 15 giorni, con stessa “mancia”; infine, i sopravvissuti avrebbero potuto fare una supplenza annuale, con stipendio “normale”.
Gli ideatori della “Buona Scuola” non sapevano forse che, con il sistema attuale delle supplenze, ci sono professori che insegnano per tutto l’anno con la sola laurea (almeno per certe materie) con stessi oneri (moltissimi) e onori (pari quasi a zero) dei colleghi provenienti da altri percorsi di formazione e abilitazione, arrivati all’agognato ruolo.
Certo, ogni docente, una volta ottenuto il contratto a tempo indeterminato, racconterà la sua epica storia di un percorso irto di ostacoli, frutto della creatività italica della nostra classe dirigente.
Perciò, tale creatività si è attuata con un tira-e-molla, nel corso degli ultimi 18 anni: nel 2000 ultimo concorso ordinario (bastava la sola laurea); tra gli anni accademici 1999-2000 e 2008-2009 viene istituita la Scuola di specializzazione per l’insegnamento secondario che dura due anni (l’esame finale è equiparato ope legis a una prova di concorso); poi rimane l’interregno del vuoto; poi con la riforma Gelmini viene creato il tirocinio formativo attivo (Tfa) per due anni accademici: i “tieffini” conseguono l’abilitazione, cioè la patente per guidare, ma non l’automobile: devono, quindi, fare un ulteriore concorso selettivo, per arrivare al ruolo, a differenza dei “sissini” che hanno avuto accesso, senza concorso, a graduatorie che garantivano l’assunzione fino al loro esaurimento. Infine arriva il governo Renzi che crea il percorso triennale di formazione inserimento e tirocinio (Fit), che non vedrà la luce, in quanto bocciato dall’attuale governo.
Dunque, si parte con la girandola degli acronimi Siss, Tfa e Fit e si danno i numeri della durata per ogni aspirante docente in formazione: rispettivamente 2, 1, 3. E adesso? Si ritorna allo zero, cioè alla necessità di avere una laurea con specifici esami nell’ambito metodologico, antropologico e pedagogico inseriti nel piano di studi della laurea normale. Chi supererà il concorso svolgerà l’anno di formazione previsto per i neoimmessi. Chi non ce la farà, potrà fare ricorso e forse qualche tribunale gli darà ragione e una cattedra.
Ma ora è lecito chiedersi: i docenti non dovevano imparare attraverso specifici e dedicati percorsi come si insegna la propria materia? Certo, in teoria, e nelle buone intenzioni del legislatore; ma poi nel nostro Paese tutto si complica e perciò diventa un lucroso business.
I giovani e meno giovani che non riuscivano ad accedere a questi percorsi lunghi e con uno sbarramento di test a dir poco esacerbante, ricorrevano a certe agenzie che promettevano di conseguire l’abilitazione all’estero: costoro si iscrivevano a fantomatici corsi per futuri insegnanti in Spagna e Romania, pagando il disturbo con fior di quattrini e poi, attraverso il sistema di riconoscimento delle lauree all’interno dei Paesi Ue, il ministero dell’Istruzione avviava l’iter formale. Si legge in rete che certi nostri connazionali hanno sostenuto esami in rumeno presso università della Romania, o addirittura – corre leggenda sul web – che un’università rumena avrebbe aperto una succursale in Sud Italia tante erano le richieste.
Meglio tornare all’antico: studiare bene e tanto all’università e imparare a insegnare sul campo come andare a bottega.
Che senso ha seguire le lezioni di didattica tenute da professori accademici, assistenti o dottorandi che non sono mai entrati in una classe? Ai giovani aspiranti docenti solo la magra consolazione di non vedersi affibbiare il nome di “fittini”.