Se c’è una cosa che non riesco a sostituire nella mia mente è il termine “preside” con quello di “dirigente scolastico”. La nuova definizione non rende in modo altrettanto efficace l’idea del complesso di responsabilità che ricadono sulle spalle di questa figura cardine. Ancora oggi, è su di essa che sono riposte le concrete possibilità di rilancio della scuola italiana. I presidi sono quelle persone in carne ed ossa, quei soggetti su cui ogni ipotesi di riforma ha fatto affidamento e da cui non si potrà prescindere neanche in futuro. Un bravo dirigente è fondamentale per il raggiungimento degli obiettivi formativi degli studenti, e questo è vero per tutti i sistemi nazionali di istruzione ed educazione con maggiore o minore autonomia scolastica. Purtroppo in Italia, dall’introduzione dell’autonomia scolastica (legge 59/1997 art. 21) ad oggi, questa evidenza non ha ancora trovato un’attuazione pratica. Ad oggi, più di un terzo delle circa 8mila scuole italiane dispone di un dirigente “in reggenza”. Viviamo infatti da anni lo scandalo per cui, in carenza di personale, ai pochi dirigenti in servizio vengono affidate una, due, a volte quattro scuole diverse, trasformando il loro lavoro così importante in un mestiere da incubo, da cui scappare appena possibile. Ancor più grave, questa prassi lascia la metà delle scuole italiane prive di una reale governance.
Dall’introduzione dell’autonomia, i concorsi banditi per selezionare i dirigenti sono stati tre, di cui uno in fase di svolgimento, e ogni volta le regole sono state cambiate: diversi i titoli richiesti per accedervi, le prove da affrontare, la tipologia del profilo richiesto. Attualmente si parla addirittura di cambiare il regolamento in corso d’opera, per garantire l’assunzione in servizio dei nuovi dirigenti dal primo settembre, pena il collasso del sistema. Quello in atto è un concorso che arranca ed è ancora solo alla seconda delle quattro prove previste, come ha spiegato sul nostro giornale qualche giorno fa Max Ferrario.
La rilevanza di questo fatto dovrebbe interessare il Paese e i media, a cominciare dai più grandi. Immaginate come sarebbe significativo se il Tg1 aprisse la sua edizione della sera annunciando — prima che la ripresa dei lavori per il Tap — che finalmente, dopo mesi di tentennamenti e di pronunce di vari Tar, si è finalmente tenuta la seconda prova scritta del concorso per i dirigenti scolastici. Oppure sarebbe divertente vedere il più accorsato inviato di SkyTg24 fare una diretta dalle aule del concorso invece che lanciare il daily time di X Factor.
Pretese assurde, le mie. Eppure se dovessimo scegliere oggi i manager, i Cfo o gli amministratori delegati delle 3mila più importanti aziende italiane, sicuramente un po’ di attenzione in più gliela dedicheremmo.
Ecco il punto. Dovremmo riuscire ad affermare l’idea che la scuola rappresenta a pieno titolo un sistema di “imprese” che partecipano alla creazione di valore per il Paese. Chi ha la responsabilità delle nostre scuole altro non è che un manager che dovrebbero essere scelto, pagato e premiato (o bocciato) con la stessa modalità di un manager privato. Mi rendo conto di sollevare un tema delicato, ma negli ultimi anni — ad esempio nelle università — dove c’è stata una pratica applicazione di questo approccio, si sono registrati notevoli successi. Non vedo dove stia la lesa maestà nel provare a separare la direzione didattica dal pesante lavoro di organizzazione e di gestione di quella che è a tutti gli effetti un’impresa.
Insomma, e lo dico con tutta la cautela del caso, ritengo che in questa fase sia reale la necessità di aprire le porte del sistema formativo pubblico alle competenze manageriali provenienti dal privato. Pur procedendo per gradi. Ma sarebbe, sì o no, una boccata di aria nuova? Aiuterebbe a fare buone economie? Sottrarrebbe i nuovi dirigenti scolastici dai rischi della subalternità al “potere burocratico” che continua a essere dominante nella scuola?
Mi ha colpito, a proposito di dirigenti scolastici, la storia dell’ex responsabile di un importante liceo classico napoletano, lo Jacopo Sannazaro.
A Napoli il Sannazaro è da considerare una scuola d’élite (si trova nel quartiere di media-alta borghesia del Vomero), per quanto si possa considerare di élite una scuola pubblica al Sud. Sicuramente un liceo ambìto, tanto dai docenti che vogliono andare ad insegnarci quanto dalle famiglie che si preoccupano ancora della formazione dei loro figli e non hanno i mezzi per mandarli a studiare altrove già a 14 anni.
La dirigente del Sannazaro quest’anno ha avuto la brillante idea di accettare iscrizioni oltre ogni limite e si è trovata nella concreta impossibilità di organizzare le classi e le attività didattiche. Evidentemente “presa dai turchi”, come si direbbe a questo punto a Napoli, e non avendo un posto dove mettere le classi in eccedenza, ha spedito in spiaggia intere classi, con l’intento di dissimulare il grave errore di valutazione commesso. Ben presto, una rivolta di popolo — così di moda oggi — ha costretto il provveditore a cacciarla e a nominare, come reggente, la dirigente scolastica del concorrente liceo Genovesi.
E’ una storia inquietante nella sua assurdità. Cos’ha spinto questa signora a commettere una tale sciocchezza? Come pensava di cavarsela? E, alla fine, cosa voleva ottenere? La ricerca di risposte convincenti a questi semplici interrogativi conduce sempre allo stesso tema, e cioè alla ricerca del potere che oggi esercita la struttura burocratica centrale e alla necessità — per chi è in una posizione subalterna — di poter partecipare a questo potere, attraverso la crescita della “forza” della propria scuola, da misurare in numeri (di studenti, di docenti, di risorse economiche disponibili, etc.). Uno scempio.
Ora, sicuramente la prima cosa da fare intanto è quella di concludere rapidamente il concorso in atto, e immettere un po’ di forze fresche con la voglia di fare qualcosa di buono nel sistema scolastico. Una volta selezionati, i nuovi dirigenti andrebbero senza indugio messi nei posti vacanti senza attendere un ulteriore percorso di tirocinio. Più utilmente, li farei affiancare — invece che dai vecchi vice-presidi — da figure prese dall’esterno, ad esempio da un albo di manager in pensione che potrebbero contribuire al riassetto organizzativo e finanziario così come ad una gestione efficace delle risorse del sistema scolastico, tra cui quelle del personale.
Aggiungerei che la mia proposta si troverebbe a bilanciare il prevedibile fatto che la maggior parte dei neo-dirigenti provenienti dal Sud saranno inviati in sedi del Nord e che molti manager sono al contrario del Nord e volentieri andrebbero in una scuola del Sud per un periodo della loro vita.
Insomma si creerebbe un corpo scelto di “civil servants” destinati a rilanciare il sistema scolastico pubblico. Ebbero molto successo qualche anno fa i nonni che aiutavano a sbrigare il traffico davanti le scuole, potrebbe avere oggi altrettanta importanza fare entrare questa generazione di persone esperte nelle scuole. Proprio in questi giorni Antonio Polito con il suo ultimo libro (Prove tecniche di resurrezione, Marsilio 2018) sostiene la necessità di non perdere il patrimonio di saggezza di un’intera generazione ancora molto attiva e disponibile a trasmettere conoscenza e capacità gestionali. Parla apertamente di una nuova alleanza tra giovani e anziani e riconosce che questa idea — non sua ma di Papa Francesco — potrebbe riparare quell’enorme spreco che si commette rinunciando a queste competenze.
Non vi pare che la scuola possa avere bisogno di queste forze? Quale altra occasione abbiamo a disposizione per trasformare, una volta tanto, un’idea condivisa e condivisibile in un progetto concreto su cui mettersi a lavorare?