Seconda media, un pomeriggio d’ottobre, una gita naturalistica tra i monti lecchesi: alle falde della Grignetta, sotto guglie splendenti al sole autunnale, chiedo ai miei alunni di descrivere il paesaggio. Prendono carta e penna, si mettono seduti, scelgono la posizione: chi su un muretto, chi su un sasso, chi in mezzo al prato. È un momento magico: in silenzio ogni tanto qualcuno si alza e mi raggiunge, mi mostra i fogli, mi legge le sue parole. “Sul prato immagino farfalle che volano a primavera”, “Ci sono le montagne”, “Il luogo mi ispira tranquillità”. “Va bene”, rispondo, “ma che forma ha quell’alberello laggiù, che colore ha il bosco? Queste montagne qui, sulla destra, hanno le stesse forme di quelle che diradando si aprono in fondo, a valle, dove c’è il lago?”. Mi accorgo di avergli chiesto una fatica più grande di quella di salire sulla cima, e non è solo quella di scrivere su carta delle parole: è quella del vedere, del guardare, del raccogliere le cose con lo sguardo ed abbracciarle.



Stessa classe, qualche tempo dopo, un altro esperimento di scrittura: “Descrivete il murales che c’è al piano terra, nel corridoio vicino all’ingresso”. Qualche mormorio, qualche “Prof, non me lo ricordo”, e io rispondo di provare, di buttar giù almeno qualcosa di quello che affiora alla memoria. Leggiamo qualcuno dei loro scritti: vi trovo bellissimi spot di quanto sia bello venire in una scuola dove non si studia soltanto (è un murales fatto in un laboratorio creativo del precedente anno scolastico), ci sono affermazioni che la scuola è più bella se è colorata, ma delle figure e dei colori del murales neanche l’ombra, anche se è grande l’intera parete e ogni mattina, entrando, vi passano di fianco con le loro cartelle e i loro pensieri.



Allora li porto giù, nel corridoio, li faccio sedere e chiedo di rimettersi a scrivere. Questa volta sì, le pagine si riempiono di parole; colori e forme iniziano a riprendere nome, e anche se sostantivi e aggettivi sono ancora generici e un po’ impacciati non importa, perché inizia ad esserci la materia prima con cui modellare il testo e dargli forma.

Questi due episodi, insieme ad altri raccolti nei miei anni di insegnamento, spalancano una riflessione. Se – come si dice – la nostra è la società delle immagini, forse alle immagini ci si sta abituando, al punto che quasi non le si vede più. È un peccato questo, per diverse ragioni, e ritengo che sia necessaria un’educazione che riabitui a vedere, a guardare, a osservare, a fermare lo sguardo, a trasformare gli impulsi visivi e percettivi che si ricevono dal mondo esterno in conoscenza.



I fotogrammi di YouTube, le storie di Instagram, gli stati di WhatsApp scorrono veloci sotto dita impazienti che non hanno nemmeno il tempo di gustare l’inquadratura, di giudicarne la composizione, di coglierne il valore. Nella pratica (pur scolastica) della descrizione c’è la possibilità di aprire mente e cuore a ciò che esiste, di fornire uno strumento per interagire con il reale e dare il proprio contributo di costruzione al mondo. Che lo sguardo, cioè qualcosa che pare impalpabile e astratto, contribuisca al mondo ce lo ricorda Antoni Gaudí, che nella sua cattedrale ha copiato e impresso le forme della natura; ce lo ricorda Ignaz Semmelweis, ostetrico ungherese che osservando le diverse condizioni di lavoro in due reparti del proprio ospedale ha introdotto un regolamento per il lavaggio delle mani riuscendo a ridurre il tasso di mortalità per febbre puerperale delle donne; ce lo ricordano la fisica, la matematica, le scienze biologiche, sociologiche e pedagogiche, nelle quali l’osservazione dei fenomeni è assunto metodologico di ricerca; ce lo ricorda il chestertoniano Padre Brown, che grazie alla “forma sbagliata” di un biglietto e alla lettura attenta della scena del crimine trasforma gli oggetti in indizi per risolvere il caso; ce lo ricorda con delicatezza e pace il matematico e filosofo russo Pavel Florenskij, che nel viaggio verso il gulag in cui lo stavano portando si accorge del colore delle betulle; ce lo ricordano i medici e i più semplici operai, i falegnami, gli elettricisti, gli imbianchini, i meccanici, che per fare bene il loro lavoro sono costretti a guardare ciò che hanno davanti e a partire da lì; ce lo ricorda anche il nostro moto dell’animo quando si accorge, da piccoli segni sul volto dell’amico (inintelligibili ad altri), di quello che sta passando nel suo animo e vi si avvicina.

Sono numerosi gli aspetti che una prospettiva del genere apre, anche nella pratica scolastica di fornire testi descrittivi da comprendere o produrre, tipologie spesso oggetto di prove Invalsi e tracce d’esame. Insieme agli aspetti linguistici, letterari e narrativi che un docente di lettere riscopre e gusta lavorando con i suoi ragazzi, c’è nella descrizione un punto di incontro tra le discipline. Se ai risultati delle prove Invalsi concorre ogni materia e se lo scopo della scuola è lo sviluppo globale della persona, la descrizione è un terreno privilegiato di semina comune: l’italiano, la storia, la geografia, l’arte, la tecnologia, la matematica e le scienze, le lingue straniere ne fanno uso continuo e costante, e se per i professori dei consigli di classe questo diventa uno strumento comune di educazione allo sguardo e alla parola, io credo che il cammino dei nostri studenti verso lo sviluppo concreto e armonioso di sé non possa che trarne un beneficio effettivo e duraturo.