E lo chiamano ancora bullismo. Questo modo di rapportarsi agli altri intriso di violenza gratuita, insensata, totale, che non conosce ragioni e non vuole scuse. Bullismo, come per declassarlo in una categoria preoccupante, sì, ma non più di tanto. “Ragazzate”, le chiamavano un tempo, roba che passava senza lasciare traccia. E’ accaduto ancora, è accaduto nella mia città, Varese, ed è emerso anche nelle cronache nazionali. Questa volta con un particolare agghiacciante in più: a chiudere in un garage per ore un quindicenne, a denudarlo, seviziarlo, minacciarlo (tanto da essere poi ricoverato in ospedale, incapace di tornare a parlare) sono stati due ragazzini più giovani di lui. Tredici-quattordici anni, seconda o terza media.



Come si fa, come può essere, si chiede la madre della vittima, e proprio in questa città che è la quintessenza della provincia italiana ricca, laboriosa, tranquilla, priva in maniera eclatante dei problemi sociali che attanagliano i grandi centri urbani? Eppure è accaduto e non è nemmeno la prima volta (un episodio analogo avvenne pochi anni fa, squarciò il velo per un istante e tutto finì lì). I giornali si riempiono di commenti, vengono scomodati i soliti esperti di turno: educatori, sociologi, psicologi. Si torna puntualmente a parlare di crisi della famiglia e della scuola, di modelli educativi che non reggono, di “valori” (ma quali sono, chi li riconosce più nella babele di proposte che ci avvolge: siamo sicuri che quando parliamo di valori intendiamo riferirci alla stessa cosa?). Tutto vero, tutto giusto, ma non basterà.

Per il semplice motivo che non è la famiglia o la scuola soltanto ad essere allo sfascio, ma la nostra società nel suo insieme. “Stiamo vivendo non tanto un’epoca di cambiamenti, ma un cambio d’epoca e quindi un cambio di cultura che alimenta la decadenza morale, non solo in politica, ma nella vita finanziaria e sociale” affermò papa Francesco già un anno dopo la sua elezione. Aveva ragione: o si parte da qui, cioè si guarda in faccia la realtà per quella che è oppure continueremo a riempirci la bocca di “valori” intorno ai quali non siamo più in grado di riconoscerci. Né possiamo fare come coloro che, affondando la testa nella sabbia, si ostinano a vedere solo il negativo o, al contrario, solo il positivo.

Fatto è che non sappiamo come venirne fuori, da questa crisi che è crisi di identità: non sappiamo più chi siamo. La politica risponde con proposte demagogiche: introduciamo a scuola la lezione di educazione alla cittadinanza, così con un’ora alla settimana i nostri ragazzi impareranno di sicuro a rispettare l’altro; oppure torniamo al tempo pieno dappertutto, così staranno più in classe e meno a casa e solleveremo i genitori dalle loro responsabilità. La scuola stessa rinuncia ai saperi in favore delle competenze (conoscete la storiella, vera, del preside che ha equiparato l’alunno capace per negligenza solo di mettere un chiodo nel muro al compagno che aveva studiato autore e corrente artistica del quadro che si voleva appendere?) e mercifica l’istruzione abbandonandola nelle braccia del mercato del lavoro. La famiglia… quale? Due maschi, due femmine o, perché no, tre uomini e una donna o…

Niente prediche. I minorenni di Varese, denunciati a piede libero, non ne hanno bisogno. Gli adulti sì, perché mi viene difficile pensare che genitori, nonni, insegnanti non si siano mai accorti di nulla. Non si può sempre nascondere tanta violenza, per di più a quell’età, dietro comportamenti “normali” in classe o a casa. Altro che semplice bullismo. C’è bisogno di tornare a dire che esistono certo posizioni diverse, ma che non tutte hanno lo stesso valore. E che non è mettendo alla pari un quadro o un chiodo che si può crescere sani.