Caro direttore,
ritorno sulla lettera di Giuditta Boscagli, che condivido in pieno. Quando ho visto alla televisione la scuola di Vimercate e ho sentito quanto vi è successo, per la prima volta ho avvertito il dolore della prof colpita alle spalle come il dolore di una gran parte del corpo docente che da decenni subisce, non senza colpe, un processo di delegittimazione che sembra irreversibile. Ho insegnato nei licei statali per trent’anni e non ho mai avuto gravi problemi con i miei alunni. In pochi casi ha dovuto mandare via dall’ora di lezione chi disturbava o chi evidentemente si era drogato nell’intervallo. Il più bel riconoscimento che abbia avuto è stato quello di un mio alunno di quarta scientifico al Virgilio di Milano, che mi ha detto: “Lei sa farsi rispettare”. Non lo riferisco per vantare doti particolari di fisico o altro che non ho, ma per ribadire che, chiusa la porta dell’aula, il docente è libero di agire come meglio crede, spiegando, interrogando, discutendo e se i ragazzi percepiscono una fermezza, anche riottosi seguono.



Nei miei anni di scuola sono passata attraverso periodi di continue assemblee e di concerti degli Inti Illimani al VII Liceo Scientifico di Milano, ora Allende, attraverso un’isola quasi felice nel Liceo Scientifico di Melzo, una scuola di provincia in cui i genitori stessi avevano bocciato il sabato libero perché volevano che i figli studiassero e non dormissero tutto il giorno, fino ad approdare all’Istituto Virgilio di Milano, grande scuola governata dalla sinistra più moderata fino all’estrema. Situazione complicata da una maxi sperimentazione poi regolamentata secondo le linee guida nazionali. Dibattiti ed episodi anche pubblici di omosessualità femminile e droga giravano, tollerati dalla presidenza e da molti docenti. Come in altre scuole, si chiamava la polizia all’inizio d’anno per verificare la correttezza dei comportamenti, poi tutti sapevano che in cortile all’intervallo si vendeva e si fumava. Ma tutti zitti, ne sarebbe andato di mezzo il buon nome della scuola. La giornata della memoria era un grande indottrinamento antifascista, come del resto quasi dappertutto. Nessun dolore, solo una superficiale condanna dei crimini nazisti; le autogestioni un rito stancamente ripetuto; le ore di recupero scolastico una beffa: dieci, dodici alunni deboli in latino con un solo insegnante obbligato a fare ripetizione collettiva, consapevole di prestarsi a una cosa inutile per 11  euro lordi all’ora.



Potrei continuare, anche perché non ho idea di quanto queste siano cose conosciute a chi non è dell’ambiente. Ma preferisco chiederle se ha notato che ogni anno, all’inizio della scuola, tutte le notizie sono sul carolibri, sulle scuole che cadono a pezzi, sui disturbi dell’apprendimento, ora sulle violenze ripetute nei confronti dei professori. Tutte cose vere e gravi. Da  molti anni non si dice una parola sull’istruzione e questo rivela, insieme a tante altre cose, l’abbassamento di consapevolezza della cultura del nostro paese.

Sto rileggendo in questi giorni la Spe salvi di Benedetto XVI. Dopo aver parlato in termini concisi di Engels, di Marx, di Lenin, il Pontefice rileva che Marx, il maestro, non diede nessuna indicazione circa il modo di organizzare la nuova società scaturita dalla rivoluzione del proletariato. Sarà questo un motivo per cui le sinistre che sanno fare opposizione molto bene, quando raggiungono il potere non governano alla loro presunta altezza, se non in forza di un moralismo autoritario ben peggiore del moralismo cattolico che tanto male ha fatto? Concludo dicendo che questa osservazione di Benedetto XVI potrebbe essere una chiave di lettura notevole per una analisi non banale del mondo della scuola dal ’68 in poi, a cominciare dalle riforme che hanno smantellato pezzo a pezzo le medie, il liceo classico, l’avviamento professionale per finire ai libri di testo, cari sì, ma soprattutto molto ideologici.



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