PARIGI — La recente riforma della scuola primaria in Francia entrerà in vigore nel settembre prossimo. Essa prevede l’inizio obbligatorio della scuola a 3 anni. Quindi l’asilo non sarà più una scelta opzionale ma diventerà obbligatorio.
Questa riforma va collocata in un quadro più generale della riforma della scuola primaria. Il ministro Jean-Michel Blanquer, infatti, ha cancellato una serie di riforme attuate dal governo Hollande e ne ha approfittato per reintrodurre per esempio la nozione “dell’imparare a memoria”, l’insegnamento della “grammatica” e del “dettato”; e test di valutazione (due al primo anno della scuola primaria, uno in seconda e un altro in terza, oltre ad altri due al primo anno delle medie e delle superiori). Misure qualificate, da sempre, come “reazionarie” dai seguaci di Philippe Mérieu. In aggiunta, si prevede che in terza elementare s’impari “a memoria la prima strofa dell’inno francese” (la Marseillaise) e in quarta “tutto l’inno” con tanto di simboli della Rivoluzione francese.
Si può parlare di una “rivoluzione” più ampia e radicale della scuola francese poiché questa riforma culmina nella scuola superiore con un vero e proprio big-bang.
Sicuramente, alcune delle proposte erano iscritte nel programma del candidato Emmanuel Macron. Questo potrebbe spiegare il cambiamento repentino dei programmi. Benché, forse, non spieghi tutto, dato che l’attuale ministro è stato direttore generale dell’insegnamento scolastico ininterrottamente dal 2007.
Perché questa giravolta? Perché in Francia è un ministro a decretare non solo i contenuti dei programmi scolastici, ma perfino la pedagogia dei processi cognitivi?
In Francia, da qualche anno, la scuola primaria cristallizza le attenzioni e le critiche delle varie fazioni e dei fautori di riforme a carattere conservatore o progressista, in un alternarsi senza sosta.
Le spiegazioni fornite dal ministro per l’ennesimo cambiamento sono di peso. Infatti, ha sostenuto che l’apprendimento di contenuti “fondamentali” fin dalla più tenera età permetterebbe di diminuire la piaga dell’abbandono scolastico, fenomeno che si produce, in particolare, con l’adolescenza. Ogni anno il sistema scolastico francese vede circa 100mila casi di abbandono della scuola (140mila nel 2011), secondo le cifre fornite dal ministero stesso.
Non potendo stabilire rapporti di causa-effetto tra le nuove misure e il problema evocato né fornire statistiche, di fronte a tale ipotesi dobbiamo sospendere il nostro giudizio.
Un secondo dato riguarda la possibilità di bambini che vivono in situazioni disagiate e di degrado umano o familiare o di “determinismi familiari”, di accedere quanto prima a un luogo dove l’istruzione toglierebbe tali determinismi biologici e/o culturali favorendo in loro una crescita umana ed educativa attraverso un ambiente scolastico più favorevole, ricco e stimolante.
Su questo punto, si possono sollevare qualche domanda e una riflessione.
Non a caso, come abbiamo accennato poc’anzi, nelle misure previste c’è un’insistenza sull’apprendimento dei simboli “repubblicani” e “rivoluzionari”, vale a dire legati a quella laicità “alla francese” che viene sempre più messa in discussione e in crisi proprio nella scuola della République.
Una prima domanda che viene da porsi è se si può parlare di educazione o d’indottrinamento. Come si può stabilire il limite tra le due dimensioni? Quali sono i criteri?
Circa 5 anni fa, durante le manifestazioni contro l’allargamento al diritto al matrimonio per tutti, l’allora ministro per la Giustizia Christiane Taubira fece una dichiarazione dalla tribuna del parlamento francese che suscitò vive reazioni. Dichiarò, infatti, che bisognava “strappare i bambini dal determinismo della religione”. Tale dichiarazione era stata fatta in seguito ad un’altra dichiarazione del ministro dell’Istruzione pubblica, Vincent Peillon, il quale aveva dichiarato in un’intervista a un giornale: “per dare libertà di scelta, bisogna essere capaci di strappare gli allievi ad ogni determinismo familiare, etnico, sociale, intellettuale, affinché possano, in seguito, poter fare una scelta”.
Queste dichiarazioni, rimaste certo isolate, possono tuttavia essere ricondotte, ora, agli intenti delle riforme proposte.
Non a caso, le maggiori attenzioni dell’attuale ministro si sono concentrate sull’età dell’infanzia.
Da statistiche, fornite dallo stesso ministero, dall’inizio dell’anno si sono verificati 404 “casi gravi di oltraggio alla laicità”. Episodi che vanno dal rifiuto di mangiare carne che non sia “halal”, di andare in piscina, dare la mano ad una insegnante, rifiuto di certi contenuti, fino a sedersi in aule di colore rosso, poiché è proibito dal Corano. Quasi tutti questi episodi sono legati a famiglie di religione musulmana. Più di un terzo si sono verificati nella scuola primaria, dove il 57% di bambini rifiutano o contestano l’autorità. Come sarà possibile sperare di risolvere questi problemi profondi basandosi su riforme scolastiche? Come potrà un bambino di tre anni o più interessarsi a leggere e scrivere o a contare? Queste decisioni rispettano il suo ritmo di sviluppo? Oppure, si tratta di una delle tante novità del pedagogismo?
Queste domande sorgono proprio dall’esperienza che ogni educatore e insegnante sperimenta nel suo quotidiano a qualsiasi età. L’apprendimento di qualsiasi competenza o materia accade dentro una dimensione affettiva dell’alunno che lo muove verso una curiosità, ossia a far sua una nozione che fino all’istante prima ignorava e gli era estranea; ad accettare un sacrificio o sforzo che sia, connesso all’appropriazione di tale nozione o processo.
Questo fattore è spesso dimenticato o preso poco in considerazione. Mentre, invece, viene data molta rilevanza, nell’ambito della riforma, allo sviluppo delle ricerche sulle neuroscienze applicate ai processi cognitivi. Il governo francese ha stanziato finanziamenti importanti per la ricerca in questo settore. Se indubbiamente, tali conoscenze e scoperte potranno spiegare e favorire processi cognitivi e schemi mentali, non potranno tuttavia, sostituire né provocare quella “scintilla” o mossa affettiva che fa iniziare il processo conoscitivo per cui un bambino o ragazzo comincia a imparare e a sapere.
Pensare che la scoperta di tali meccanismi o che un bambino di 3 anni possa interessarsi a certe nozioni, ci sembra puramente utopico, degno delle migliori teorie rousseauiane sull’educazione dell’infanzia, poiché un bambino a tale età non può avere accesso al concetto, all’astratto né tanto meno al senso. Ed è totalmente incapace di avere un’attenzione e una capacità di concentrazione necessarie per entrare in un processo di apprendimento. Al massimo, assumerà le nozioni scimmiottando gli adulti.
Tutt’altra cosa sarà se queste riforme saranno applicate tenendo conto della realtà del bambino, non tanto in termini di diritti ma nella sua dimensione umana.
L’intento di attaccarsi alle carenze educative familiari o culturali e permettergli di ricevere lo stesso “bagaglio” educativo e culturale di ogni bambino troverà la sua efficacia se si rispetterà il suo bisogno di giocare, di attaccarsi ai compagni di scuola, alla maestra, potersi fare degli amichetti nella classe. Solo dentro questa dimensione, che rispecchia il suo bisogno psico-affettivo, si potrà comunicargli degli apprendimenti.
Questo rapporto educativo, tra bambino/alunno e maestro/professore non può certo decretarsi per legge. Nasce da uno sguardo e per una passione per la realtà e l’urgenza educativa epocale che stiamo tutti vivendo.