Tanti di noi subiscono il fascino della cultura anglosassone, pensando ingenuamente di dover guardare altrove, nell’illusione che il futuro si possa costruire solo tramite persone e luoghi nuovi, dimenticando di essere il prodotto nel tempo del susseguirsi di tante generazioni e quindi accantonando la propria storia. C’è chi guarda al modello anglosassone come punto di riferimento per una svolta storica della nostra società, più volte citato, più volte preso ad esempio nei salotti della cultura e della politica italiana, per auspicare e indirizzare riforme come quella scolastica e universitaria.
Eppure, la mia esperienza come professore e studente in Gran Bretagna e il mio passato impegno come consulente del ministro dell’Istruzione, mi hanno spinto spesso a dubitare che si debba importare proprio tutto dalla cultura anglosassone. Si dice: “L’inglese domina il mondo, cosa ci fai con le lingue morte, non ti danno mica da mangiare!”. L’istruzione è così proiettata verso il professionismo, con l’idea che il valore di ogni cosa e azione debba seguire sempre e per forza una logica di mercato e utilitaristica del profitto. Per dare un segnale chiaro al mercato, per capire quanto “valgono” gli insegnanti, gli studenti, e gli istituti educativi, secondo il pensiero dominante è necessario misurare il “valore” di tutto e tutti.
E se ci sbagliassimo nel rincorrere il mito del sistema anglosassone? Siamo veramente convinti di sostituire Epitteto o Seneca con Richard Branson? Crediamo veramente che Socrate approverebbe quel consensus sapientium con cui oggi si misura e valuta la conoscenza?
Di recente Amanda Spielman, il numero uno dell’Ofsted, il “cane da guardia” delle scuole britanniche (così viene conosciuto l’organo indipendente che valuta la qualità delle scuole), ha dichiarato che nel passato la sua organizzazione “ha dato troppo peso ai test e agli esami”. La Spielman ha poi aggiunto: “Concentrarsi in maniera troppo riduttiva sui risultati può spesso tradursi nell’avere poco tempo o energie per dedicarsi al curriculum”. In Gran Bretagna l’ossessione di valutare le istituzioni in funzione della performance accademica ha trasformato nel tempo il ruolo dell’insegnante, facendolo diventare un vero e proprio manager dei dati. Pur di scalare le league table, i dirigenti scolastici inglesi hanno caricato di lavoro burocratico i loro professori, costringendoli a insegnare ai propri allievi sin dalla tenera età come rispondere in modo accurato a test ed esami, anziché lavorare per la formazione intellettuale e la conoscenza. In alcuni casi si è andati ben oltre, cercando di raggirare il sistema, incoraggiando gli studenti “peggiori” a non sostenere gli esami nazionali, ma altri, pur di non retrocedere nelle classifiche.
In questo clima di competizione, gran parte delle scuole private fanno addirittura sostenere test di ingresso a bambini di quattro anni, con la convinzione di selezionare e manovrare verso il successo i bambini sin dall’infanzia.
Ricordo ancora con orrore quando in una scuola, a detta di molti la “migliore” di Cambridge, mi dissero di aspettare fuori dalla classe in quanto le istruttrici avrebbero “valutato” mia figlia di tre anni e mezzo per poi comunicarmi al più presto, attraverso una lettera formale, l’esito della prova. Rimarrà sempre un mistero quali siano stati i motivi che hanno portato la scuola a rifiutarle il posto. Quando poco dopo fu finalmente ammessa in un’altra scuola, ho pensato di essere un genitore fortunato, che la mia piccolina fosse riuscita a dimostrare di sapere qualcosa, nonostante l’età. Da allora, si è cominciato a rivelare il triste volto della concorrenza fra scuole, che porta con sé paure e ansie da prestazioni scolastiche. Fui sorpreso e per certi versi sconvolto quando la maestra, nell’incontro con i genitori, mi disse che la bambina di appena quattro anni avrebbe ricevuto lezioni extra, perché doveva progredire con la lettura e la scrittura. Qualche anno più tardi mi venne comunicato che la classe era stata divisa in due sezioni, e che in maniera tacita si erano costituiti il gruppo dei più “bravi” e quello dei meno “bravi”. Fu allora che capii come le scuole inglesi, per condizionare il risultato delle classifiche, non soltanto selezionavano gli alunni prima dell’iscrizione, ma lo facevano anche durante il percorso scolastico in maniera “scientifica”, perché il tutto si basava sui risultati dei test che si comparavano con la media nazionale.
Ho osservato, paragonando gli studi dei miei figli con quelli delle mie nipoti che studiano in Italia, che in Inghilterra non si approfondisce lo studio delle materie. In Inghilterra si fa poca teoria, in sostanza si passa poco tempo a spiegare le regole generali: per esempio, nella matematica, si punta molto sulla mental maths, ovvero la capacità di fare i calcoli a mente. Per quanto riguarda la storia e la geografia, di nuovo, non si studia in maniera strutturata, si preferisce fare tanti compitini (li chiamano case studies), che spesso hanno come oggetto le ex colonie britanniche. Anche l’inglese, non avendo delle regole certe come altre lingue, per esempio il tedesco, si studia scegliendo singoli casi.
Shakespeare è il nome più frequentemente usato da tutti. Non vorrei esagerare, ma se si potesse diminuire l’influenza del fattore “ lingua inglese”, forse il più conosciuto letterato di tutti i tempi perderebbe questo primato e probabilmente nel giochino delle classifiche verrebbe superato dal nostro Dante.