“La crescita degli otto milioni di studenti italiani è affidata al corpo insegnante più vecchio d’Europa: l’età media è di 51 anni”; così l’autorevole OrizzonteScuola.it su dati ministeriali. Peccato che l’affermazione risalga a quattro anni e mezzo fa, quando l’allora ministro della Funzione pubblica Marianna Madia affermava che bisogna ringiovanire la Pa immettendo energie giovani. Peccato nel senso che nel frattempo, complici blocco del turnover e delle pensioni, la situazione non sia in sostanza migliorata nonostante l’immissione in ruolo di nuovi docenti. Per cui rimane il fatto che due insegnanti su tre hanno più di 50 anni e addirittura l’11 per cento più di 60.
Quest’ultimo dato viene alla mente davanti all’ennesimo fattaccio di cronaca che coinvolge il sistema scolastico, questa volta in un asilo di Pero, grosso centro alle porte di Milano. I magistrati, intervenuti su segnalazione dei Carabinieri di Rho, parlano di “condotte vessatorie psicologicamente avvilenti e fisicamente violente” da parte di un maestro di 64 anni, in servizio da 34. Come sempre, l’indagine farà il suo corso e, se del caso, la giustizia sarà chiamata a punire azioni che non possono essere giustificate, ancor più se commesse ai danni di bambini addirittura in età prescolare.
Detto questo e passata l’inevitabile ondata di indignazione che sempre accompagna notizie di questa natura, rimaniamo in attesa che qualcuno —specialmente nei piani alti del ministero o del Governo ma, in alternativa, anche in quelli bassi della popolazione (spesso distratta) e del corpo docente (ottimo incassatore di riforme su cui nessuno chiede mai il suo parere) — si ponga la più semplice delle domande: cosa ci fa un insegnante di 64 anni con bambini anche di 2?
Perché, siamo sinceri, un numero dovrebbe balzare evidente anche all’occhio del più distratto: la differenza di età tra docente e discente è di ben 62 anni! Non solo: dovesse rimanere in vigore la legge Fornero così com’è, il gap massimo arriverebbe addirittura a 65. Ora: non ha nessun senso, ma proprio nessuno, che governi nazionali di ogni colore politico e l’Unione Europea affermino solennemente che scuola e formazione siano alla base di una comunità civile, che parlino anzi di “emergenza educativa” e poi costringano a scuola insegnanti che-non-ne-possono-più di avere a che fare ogni giorno con alunni che potrebbero essere benissimo i loro nipoti.
Senza, oltretutto, rendersi conto (oppure voltando la testa dall’altra parte, cosa più probabile) che il mondo della scuola non assomiglia per niente a quello anche solo di una generazione fa: aule sovraffollate, alunni provenienti da famiglie sempre più sfasciate e, di conseguenza, spesso incapaci di educare, classi cosmopolite e perciò gravemente eterogenee, studenti in possesso di certificati medici rilasciati a go-go, preparazioni di base carenti già ad iniziare dalle elementari e che si ripercuotono a valanga sulle classi successive. Fino all’università, dove è ormai consuetudine organizzare corsi di scrittura per chi deve iniziare la tesi. Ciliegina sulla torta, il venir meno della considerazione sociale in cui è sprofondato il corpo docente.
Tutto ciò non può giustificare, lo ripetiamo, violenze di qualsiasi tipo all’interno di un ambiente che dovrebbe essere, insieme alla famiglia, educativo per eccellenza, dove tutti gli attori dovrebbero “stare bene” e di cui i genitori dovrebbero fidarsi ciecamente. Cosa che, sia chiaro, avviene nella stragrande realtà dei casi. Tuttavia un fatto come quello di Pero, punta dell’iceberg del malcontento generale che si respira nella scuola, deve anche indurre finalmente a una riflessione: l’economia, la finanza, i relativi bilanci statali da far quadrare ad ogni costo hanno finito per dettare legge e per calpestare tutto il resto, fattore educativo compreso. E compreso anche il diritto, quando si ha l’età di essere nonni, di occuparsi dei propri nipoti, non di quelli altrui.