Caro direttore,
La Stampa del 6 dicembre a pubblicato a firma di Antonella Boralevi un articolo che mi è risultato stranamente famigliare. Parte da un video che proviene dall’America, precisamente dalle campagne dell’Ohio, dove un padre, che ne è l’autore, riprende la figlia di 8 anni che cammina lungo una strada rurale, in un ambiente rigidamente invernale, con il suo zainetto in spalla, per circa 8 km da casa a scuola. Il video è, come si dice, divenuto virale per la ragione di questa strana gita invernale. La figlia aveva avuto comportamenti da bulla sullo scuolabus ed era stata sospesa. Il modo con cui il padre aveva deciso di contrastare il bullismo della figlia e forse anche di altri ragazzi era stato questo; seguendola in auto aveva girato il video.



Non ho avuto la minima esitazione nello stare dalla parte del padre, non per solidarietà di categoria, ma per esperienza vissuta, che questo articolo mi ha portato alla memoria. Anzi, l’articolo mi è stato segnalato da mio figlio Giorgio, ora universitario, con uno squillante whatsApp: “Papi guarda qui!”

Qualche anno fa, Giorgio in quinta elementare aveva subito giustamente un’analoga sospensione dall’uso dello scuolabus da parte della scuola paritaria che frequentava a Varese per aver “camminato ripetutamente nonostante i richiami dell’educatore sui poggiatesta dello scuolabus che lo riportava a casa”. Dopo il primo momento di orgoglio nell’apprendere le doti acrobatiche di mio figlio, la cosa sembrava risolversi col solito pippone del padre e con il solito muso del figlio, ma mi era sembrata qualcosa di troppo banale, un gioco dei ruoli che lasciava solo rancore. Complice il giorno libero dal lavoro ed una giornata primaverile che si annunciava meteorologicamente perfetta, confortato dall’appoggio di mia moglie, mi ha colto l’idea di accompagnarlo a scuola a piedi (in questo caso meglio ancora del papà americano comodamente seduto in auto).



“Giorgio domani andiamo a scuola a piedi, si parte alle 6, spero che imparerai qualcosa”. Uno sguardo sbalordito ed una bocca spalancata sono stati la sua reazione. Google maps mi precisa che i chilometri tra casa e scuola sono 11,2. Anche sulla distanza surclassiamo alla grande il papà americano!

Devo dire che la gita è stata assolutamente piacevole, prima tra i giardini ed i prati, poi in città, alla fine lungo la provinciale. Il momento più duro è stato, come sempre, l’ultimo miglio, con le auto dei compagni di classe che lo riconoscevano e rallentavano: “vuoi un passaggio?” “no grazie andiamo a piedi”. Mancava di dire: “facciamo volentieri due passi”. Giorgio si vergognava in maniera evidente, testa bassa e leggermente deviata verso il muro, muso duro, poi davanti alla scuola entra di corsa e scompare in classe. La maestra, che sapeva, gli va incontro con un sorriso. Tanti, dopo questa avventura, si sono complimentati. In tempi in cui i genitori sono diventati i sindacalisti o i badanti dei poveri figli punire un figlio per fargli vedere la strada giusta può essere già un atto rivoluzionario. A volte è dura, sicuramente più comodo far finta di niente. Siamo sensibili alla sofferenza dei figli, specie se la imponiamo noi. Ma l’aspetto più convincente per me è stato l’accompagnarlo, il condividere con lui la fatica del crescere, trasmettendogli che il suo impegno è anche il mio. Che non è solo con i suoi sbagli. Comunicando con la nostra certezza di genitori, con il nostro sorriso ironico che cadere e rialzarsi sono parte del cammino.



Poi ogni tanto, abbiamo bisogno di soddisfare il nostro senso dell’avventura.