Seconda e ultima parte dell’intervista uscita mercoledì 5 dicembre (ndr)

L’assurdità è che lo specialista immagina e propone un piano di rientro, un percorso riabilitativo senza concordarlo, condividerlo a priori con la scuola. L’assurdo metodologico è che il clinico debba prescrivere ciò che pertiene al docente: delega alla scuola il compito di riabilitare con linguaggi e strumenti che sono propri dell’azione clinica e non dell’azione didattica. Questo in realtà frustra solamente l’operato dell’insegnante e demotiva lo studente: l’uso di tali strumenti non fa altro che sottolineare ulteriormente al ragazzo la sua anormalità, che è psicologicamente inaccettabile. Infatti ciò che un ragazzo vuole è essere normale: leggere i suoi testi ad alta voce durante la lezione – come mi ha confidato un ragazzo – anche se è dislessico e lo fa stentatamente, per essere parte integrante della classe. Un ragazzo può riconoscere di avere un problema, ma non vuole essere vissuto come un problema, non vuole essere “il” problema. Il grande inganno è proprio quello che il clinico si è assunto una funzione di tutela dalla discriminazione dello studente in difficoltà da parte della scuola, cosa che non è solitamente né nelle intenzioni né nei fatti. Lo specialista si erge a difesa del ragazzo, come se avesse una funzione giuridica: tutte le diagnosi fanno sempre riferimento ai decreti legislativi, come per ribadire alla scuola la sua inadempienza se non applica determinate normative nei confronti del ragazzo. È un problema culturale legato alla disistima nei confronti del mondo della scuola e all’incapacità di integrare due saperi che sono assolutamente complementari, quello psicologico e quello pedagogico.



Eppure si sostiene che la normativa sui Dsa nasca dal non aver tenuto in debita considerazione nel mondo della scuola la fatica eccessiva di questi ragazzi.

La legge è nata come richiesta di un’associazione che ha voluto far presente un problema reale. Non si può infatti negare che il problema delle difficoltà di apprendimento esista, e i docenti se ne rendono quotidianamente conto. Alcuni ragazzi fanno fatica ad apprendere – e il loro numero è in crescita – , però è molto più produttivo lavorare in una direzione culturale che in una direzione medica. Il deficit di apprendimento è una sorta di “sindrome culturale”. Ecco perché non bastano gli strumenti compensativi: è implicato qualcosa di più importante e di più profondo. Non si tratta di un disturbo tecnico, ma di una difficoltà in cui c’è un coinvolgimento emotivo ed affettivo del ragazzo. Tra cognizione e affezione c’è un rapporto strettissimo: il bambino, il ragazzo impara quando è in situazione, in relazione. Se non coglie i nessi, non è interessato e non impara. Sicuramente occorre dare delle risposte specifiche, adeguate, puntuali: riconoscere il problema e risolverlo. Però occorre anche capire che i ragazzi con difficoltà di apprendimento sono la punta di un iceberg rispetto a una società che li produce come diffidenti nei confronti di adulti che non siano assecondanti, di un ambiente che è istituzionale, di una proposta sfidante…



Come possono aiutarsi ad affrontare tali casi scuola e famiglia?

Innanzitutto occorre condividere due premesse. Prima, l’intelligenza non dà in automatico l’apprendimento. La normalità della dotazione cognitiva non dà meccanicamente l’apprendimento. Il mediatore è l’interesse, la motivazione. Come la paura è un fondamentale mediatore psicologico, così il desiderio. Se c’è un difetto nel desiderio, non si impara. In campo diagnostico si dimentica spesso la componente della motivazione che non può essere quantificata, ma per lo meno verificata con l’osservazione e il dialogo. E la motivazione è legata anche a fattori socio-economici, socio-culturali, educativi, storici, legati alla personalità del ragazzo. In secondo luogo: occorre imparare ad accettare le differenze che si generano in ambito scolastico. Tutti devono essere messi dalla scuola nella condizione di imparare, ma la scuola non può appianare le differenze. Il principio di realtà vuole che esistano delle differenze: come la scuola deve adeguare la didattica a chi ha delle difficoltà, così deve adeguarla per stimolare l’eccellenza. Abbiamo un 10-15 per cento di apprendimenti problematici e altrettanto di iperdotazioni intellettuali. Il tasso di abbandoni scolastici è altissimo in Italia e non riguarda necessariamente gli studenti con certificazione di Dsa. Sono i border line, non coperti da nessuna tutela normativa.



E l’emergenza educativa di cui tanto si parla?

Nasce anche dal fatto che l’unico reale luogo di normalità è la scuola. La resistenza delle famiglie è ad accettare questo. Recalcati, riprendendo Lacan, spiega bene che quando il bambino passa dalla propria casa nell’ambiente scolastico, collettivo, avviene una sorta di dematernalizzazione del linguaggio, passa dalla lingua della madre a quella del collettivo, della normalità. In questo passaggio avviene la rottura. La famiglia pretende che la scuola parli il linguaggio ridotto, limitato e autoreferenziale della famiglia. Protegge i suoi piccoli, in un contesto invece in cui il bambino deve riconoscere il passaggio, anche di autorità. Dove è chiamato a riconoscere la differenza e le differenze. La famiglia spesso pare ritenere inaccettabile che la scuola sia il luogo della normalità.

In qualità di consulente psicologico scolastico ha progettato o visto percorsi che si sono rivelati capaci di ottenere che i ragazzi in difficoltà fossero messi in grado di fare un’esperienza di apprendimento reale, valorizzando le specifiche competenze di genitori, docenti, specialisti e rispettandone i ruoli?

Condivise le premesse suddette attraverso percorsi formativi per i docenti e incontri con le famiglie, è certamente stato in più casi possibile progettare degli interventi diagnostici e riabilitativi, come il progetto di screening e di valutazione nella classe terza della primaria per verificare la presenza di problemi, intervenire e riabilitare. Lo screening implica una assoluta corresponsabilità di docenti e specialisti già in fase diagnostica: questa logica è vincente, come dimostra l’esperienza che da anni stiamo facendo in alcune scuole sensibili al tema. Il problema di apprendimento viene riconosciuto attraverso test che misurano le prestazioni cognitive, ma anche questionari compilati da docenti e famiglie sulle cosiddette soft skills, condiviso tra docente e specialista e affrontato con lo studente in tempi brevi. Solo in questa logica di unitarietà di intervento è possibile recuperare.

Anche perché uno studente si sente così parte di relazioni…

Esatto. Perché la persona è le relazioni che ha.

Raffaela Paggi

(2 – fine)