Il modo più chiaro per una società di dimostrare di non credere nel proprio futuro, o semplicemente di disinteressarsene, è quello di non investire sulle nuove generazioni. Di dismettere l’immissione in quantità e qualità adeguata di nuovi entranti nella popolazione, nella società, nell’economia.
E’ quello che sta succedendo all’Italia di oggi, uno dei paesi avanzati che più sono entrati in modo disorientato e con passo insicuro in questo secolo, non avendo ancor oggi trovato un proprio coerente e convincente percorso di sviluppo in sintonia con le grandi trasformazione in atto. La conseguenza è bassa crescita e accentuate diseguaglianze. C’è stata una fase nella storia italiana che ha visto in combinazione crescita economica e ampia spinta al miglioramento delle condizioni generali della popolazione, con corrispondente allargamento del ceto medio. Alla base di questa crescita e spinta sociale ascendente c’è stato soprattutto il miglioramento delle opportunità delle generazioni affacciatesi alla vita adulta nei primi decenni del secondo dopoguerra. Quel modello sociale e di sviluppo è ormai archiviato, non più coerente e funzionale con le trasformazioni delle economie mature e delle società moderne avanzate, ma qualsiasi cosa significhi “crescere” nel XXI secolo l’Italia di oggi ne è ben lontana.
Una cosa rimane comunque vera e continuerà ad essere un criterio guida anche nei prossimi anni: migliora la prosperità dei paesi che mettono le nuove generazioni nelle condizioni di essere e fare, di più e meglio, nel proprio tempo.
Due recenti rapporti ci dicono quanto poco il paese sia incamminato su questa strada. Il primo è quello sul Bes (Benessere equo e sostenibile) dell’Istat, che evidenzia, usciti dagli anni acuti delle crisi, un avanzamento su molte dimensioni, ma con vari limiti e contraddizioni: la distanza ampia su molti indicatori dalla media europea; un peggioramento del clima sociale; la persistenza delle difficoltà delle nuove generazioni. Su quest’ultimo punto va sottolineata la particolare debolezza di tutta la transizione scuola-lavoro, con troppi giovani che continuano ad uscire dal percorso di formazione in modo precoce e senza adeguate competenze, alimentando il nostro bacino dei Neet (giovani che hanno smesso di studiare ma sono senza occupazione formale). Secondo i dati Istat deteniamo il record assoluto europeo: a trovarsi in tale condizione è circa un italiano su quattro tra i 15 e i 29 anni.
L’altro report è l’analisi su istruzione, reddito e ricchezza pubblicata da Bankitalia. In tale studio viene fornita ulteriore evidenza empirica che l’ascensore sociale, fermo da tempo in Italia, non è ancora ripartito. Il nostro paese continua a rimanere tra quelli con più bassa mobilità intergenerazionale. Più facilmente accade, rispetto alle generazioni passate e ai coetanei europei, che chi nasce in famiglie con basse risorse culturali ed economiche si trovi con meno possibilità: a parità di talenti, di vederli riconosciuti e raffinati con solida formazione; a parità di formazione, di trovar lavoro e consolidare il proprio percorso professionale; a parità di lavoro, di avere un reddito adeguato e veder valorizzato pienamente il proprio capitale umano. E’ il ritratto di un paese che, al di là del ruolo di figli da proteggere, non ha ben chiara la funzione da assegnare alle nuove generazioni nei propri processi di sviluppo e produzione di benessere in questa fase storica.
I nuovi entranti nella vita adulta, con le loro specificità e la loro formazione, costituiscono il capitale umano e sociale più prezioso per mettere in sintonia tradizione e innovazione, antropologia e tecnologia, bellezza ed efficienza, il valore che sa esprime il nostro paese e le sfide del mondo che cambia. Le buone intenzioni non mancano, singole esperienze positive e di eccellenza ci sono, ma un sistema paese che decolli sulle ali delle nuove generazioni ancora non si vede.