A scuola qualche alberello con addobbi di fortuna e luci rese pallide dallo sfondo luminoso del giorno che si mostra di là dalle finestre, fa da misero contrappunto al mio tentativo di inseguire l’ultimo argomento prima delle vacanze invernali. Il tema che impera nelle aule in cui insegno, non riguarda l’attesa di Gesù Bambino, bensì l’Open Night che si prepara. Un’occasione bella ed importante che coinvolgerà i licei classici di tutta Italia sul tema dell’identità.



Con i miei alunni di seconda stiamo preparando l’aula d’inglese. Le idee sono tante. Interviste in lingua straniera; una specie di gioco del “tabù” sul tema della ricerca dell’identità nascosta, e poi la proposta di canzoni che possano accompagnare dei passaggi di opere shakespeariane.

Accanto al tema dell’identità negata e ridotta a numero, come è accaduto sulla pelle di uomini, donne e bambini ad Auschwitz o nelle colonie penali francesi di cui parla Victor Hugo nei Miserabili, emerge quello del nome proprio cancellato e sostituito con uno inglese, come accaduto a Kunta Kinte, rapito sulle coste africane e venduto come schiavo “Tobi” nelle piantagioni di cotone in Virginia, di cui parla il famoso romanzo di Alex Haley, Radici. Ma la questione della propria identità sta anche al fondo dell’analisi che paralizza l’azione di Amleto. La stoffa umana che ci costituisce, però, si svela molto di più nell’azione che non nel pensiero. Accade così, nell’Enrico V di Shakespeare, ai soldati inglesi prima della battaglia di Agincourt mentre, ascoltando il memorabile discorso del loro re, si preparano ad affrontare l’impari lotta con l’esercito francese.



Non mi basta. “Come capiamo chi siamo veramente?”, chiedo alla mia classe. Per Matteo la questione è semplice: “Basta elencare nome e cognome”. “Lo comprendiamo da come affrontiamo la vita” afferma sommessamente Marina. “Lo capiamo prima di morire” propone Ritamaria tra il serio e il faceto. “Ma chi ci assicura che la nostra esistenza ha avuto un valore?” rilancio.

A questo punto mi viene in mente l’episodio che mi ha colpito la sera prima.

Da qualche tempo, infatti, faccio lezione di inglese presso l’Onlus “Così come sei” di Ragusa, un’associazione di genitori di ragazzi con deficit medi o medio-gravi di diversa natura. Avevo appena finito la mia lezione invitandoli a ripetere insieme “Goodbye teacher!”, che entra nella stanza il papà di due alunni affetti da una rarissima sindrome gravemente invalidante a livello cognitivo, comunicativo, affettivo, motorio e così via, purtroppo. 



Ma lui, il papà, non è bloccato da nulla di tutto ciò. Lentamente, con incredibile delicatezza, si piega sui suoi figli e li bacia con tenerezza infinita.

“Quando è stata l’ultima volta che ho avuto un’attenzione così per i miei figli?” mi chiedo adesso. Sul momento, invece, non ci faccio caso. Quell’immagine, però, mi torna in mente con insistenza mentre discuto con i miei alunni. Talvolta accade anche ai prof, che a furia di spiegare le cose, alla fine le capiscano. Così è per me. “Vedete, ragazzi — faccio notare alla classe di liceali — l’identità di quei due ragazzini non è nel nome che non sanno pronunciare, nelle cose che non sanno fare, nell’analisi che non spiegherebbe nulla. La loro identità è in quel gesto di tenerezza che afferma inequivocabilmente che loro sono la cosa più preziosa dell’universo”. Quel papà è come Dio nel Natale: si china sulla nostra nullità perché è la cosa più cara che ha.

“Vi auguro di sperimentare anche voi un abbraccio anche solo paragonabile a quello che ho visto fare a quel padre, perché è in quel gesto che scopriamo chi siamo”. Io non me ne ero accorto quella sera ed invece, dentro la mia distrazione, il Natale è comunque arrivato.