Nei giorni di uno dei più anomali e convulsi processi di approvazione della legge di bilancio, il Consiglio dei ministri del 21 dicembre 2018 (n. 33) ha approvato, come adempimenti di mera “routine”, due iniziative che, invece, appaiono di notevole incidenza sugli ordinamenti vigenti, in particolare sul sistema scolastico, e che avrebbero meritato un ben più ampio confronto pubblico preventivo.
La prima è la definizione del percorso finalizzato a promuovere il disegno di legge sull’“autonomia differenziata delle regioni”, ai sensi del terzo comma dell’art. 116 della Costituzione, il cui testo verrà presentato ai Presidenti delle Regioni entro il 15 febbraio 2019.
La seconda concerne l’esame preliminare di un disegno di legge delega finalizzato al “miglioramento della pubblica amministrazione”, i cui decreti legislativi dovrebbero essere adottati entro 18 mesi dall’approvazione della delega.
Si tratta, come è evidente, di due provvedimenti che potrebbero avere un ruolo dirompente per il sistema scolastico, sia nei rapporti con le competenze regionali, sia, al suo interno, su aspetti importanti che ne caratterizzano l’attuale assetto.
Peraltro essi non sembrano legati solo dalla loro contestualità temporale, forse non del tutto occasionale, perché il secondo riorganizza significatamente, tra l’altro, importanti aspetti del sistema scolastico, nell’ambito di analoghi interventi in altri settori della Pa, mentre il primo, potenzialmente, trasferisce alle Regioni molte, non ancora definite, competenze in materia, tra le quali potrebbero esserci anche quelle da riorganizzare.
Appare pertanto necessario un effettivo coordinamento tra le due iniziative.
Se infatti, come emerge da fonti diverse, soprattutto regionali, si andasse verso il trasferimento alle regioni della gestione delle scuole e del relativo personale, nonché degli stessi uffici scolastici territoriali, bisognerà vedere in che misura le variabili del primo intervento potrebbero condizionare l’altro, in particolare in materia di riorganizzazione della governance delle scuole e della gestione e valutazione del personale.
In relazione all’ipotizzato intervento concernente “le semplificazioni, il riassetto normativo e la codificazione”, oggetto dell’esame preliminare di uno schema di disegno di legge in materia da parte del Consiglio dei ministri in data 21 dicembre u.s., si osserva preliminarmente che esso si inserisce in una strategia più ampia di revisione normativa dell’intero sistema della Pubblica amministrazione che verrà gestita con criteri omogenei dalla presidenza del Consiglio e dallo stesso ministero della Pubblica amministrazione, senza alcun esplicito rinvio, per gli aspetti concernenti scuola e università, alla competenza prioritaria del Miur, a suo tempo invece prevista dalla precedente “riforma Brunetta” della Pa (art. 74, comma 4 legge 150/2009).
Appare pertanto al riguardo opportuno che la prevista riorganizzazione del sistema dell’Istruzione, coordinata dal ministero della Pa, salvaguardi, per quanto riguarda ad esempio la valutazione e gli organi collegiali, le specifiche garanzie costituzionali legate alla libertà di insegnamento ed all’autonomia scolastica.
Significativa rilevanza “politica”, tra i temi oggetto della delega, assume in particolare la valutazione di scuola e università, rispetto alla quale l’art. 5, comma 3 dello schema di disegno di legge indica, alla lettera a), il seguente criterio di delega: “razionalizzazione, eventualmente anche attraverso fusioni e soppressioni, di enti, agenzie, organismi comunque denominati, ivi compresi quelli preposti alla valutazione di scuola e università, ovvero attraverso la trasformazione degli stessi in ufficio dello Stato o di altra amministrazione pubblica, salvo la necessità di preservarne l’autonomia, ovvero ancora liquidazione di quelli non più funzionali all’assolvimento dei compiti e delle funzioni cui sono preposti, ferma restando la salvaguardia del personale in carico ai suddetti soggetti, qualora incardinato nel rispetto della disciplina normativa sulle assunzioni”.
Pur dando per scontata l’assoluta provvisorietà del testo, oggetto solo di un “esame preliminare” da parte del Consiglio dei ministri, e l’evidente esigenza di un intervento successivo di “drafting”, non può non destare qualche perplessità una delega del Parlamento al Governo di carattere così indeterminata e ambivalente da sembrare quasi una delega in bianco, con un’adesione del tutto formale rispetto ai presupposti indicati in materia dall’art. 76 della Costituzione.
Anche se sembrano aperte ancora tutte le soluzioni — e quindi non è facile capire quale sia l’effettiva scelta politica della legge di delega — da più parti è stata tuttavia paventato il disegno di sopprimere o, almeno, di ridimensionare, l’autonomia dell’Invalsi e dell’Anvur, enti oggi preposti alla valutazione delle scuole e delle università, magari riconvertendoli in Uffici dell’amministrazione.
Sulle pagine di questo giornale si è paventato che all’origine del provvedimento ci siano finalità di accentramento burocratico del sistema. Analoghi allarmi sono stati lanciati, dalle pagine di Repubblica, da parte di Corrado Zunino e Chiara Saraceno, che richiamando anche le disposizioni del decreto “milleproroghe” — che ha sospeso per quest’anno scolastico le prove Invalsi come requisito di ammissione all’esame di Stato — lamentano una diffusa ostilità ad ogni forma di valutazione esterna degli alunni e, indirettamente, degli insegnanti, attraverso tutte le prove standardizzate, incluse quelle dell’Ocse Pisa.
Certamente, come ricordava un tempo l’on. Andreotti, a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca.
Tuttavia, allo stato, la disposizione richiamata, per la sua genericità e ampiezza, può prestarsi a qualunque interpretazione, anche quella della volontà di un intervento che, senza rinunciare al sistema di valutazione indipendente, ne corregga alcuni difetti che sono obiettivamente emersi nel tempo.
In tal senso, del resto, si possono leggere alcune interviste del ministro Bussetti, che si è fatto interprete di un certo disagio rispetto all’attuale impianto delle prove Invalsi.
In realtà non c’è dubbio che, in particolare per quanto riguarda l’Invalsi, l’attuale impianto della valutazione sia da tempo oggetto di alcune critiche, tanto che già l’art. 7 del decreto legislativo 62/2017, attuativo della legge 107/2015 (“Buona Scuola”), aveva eliminato dall’esame di Stato conclusivo della scuola secondaria di primo grado la prova Invalsi, a carattere nazionale, “volta a verificare i livelli generali e specifici di apprendimento conseguiti dagli studenti”, secondo quanto prima previsto dalla legge 176/2007 e dal DPR 80/2013. Era stato comunque mantenuto l’obbligo della partecipazione a dette prove ai soli fini dell’ammissione ai predetti esami di Stato.
Analoghe disposizioni erano state previste dagli articoli 13 e 14 del medesimo decreto legislativo 62/2017 per gli esami di Stato conclusivi dei percorsi di istruzione secondaria di secondo grado.
Tali ultime disposizioni sono state successivamente sospese dal “decreto milleproroghe” del 25 luglio 2018 (convertito il 21 settembre 2018) e le previste prove Invalsi “differite” dal primo settembre 2018 al primo settembre 2019.
Ora il nuovo disegno di legge sembra confermare una precisa volontà politica di riordinare la materia.
Va detto, del resto, che lo stesso intervento attuativo della “Buona Scuola”, già a suo tempo oggetto di resistenze, era finalizzato proprio a superare la maggiore criticità, da più parti denunciata, del sistema di valutazione facente capo all’Invalsi e cioè la parziale sostituzione, con le prove “oggettive” e standardizzate, della tradizionale valutazione del singolo alunno da parte dei docenti della classe, i quali ne potevano meglio valutare, al di là delle conoscenze e competenze acquisite, l’impegno, i progressi, nonché il contesto in cui la valutazione stessa era maturata.
Ulteriori criticità sono state ricorrentemente evidenziate quali presunte distorsioni della didattica delle discipline in funzione della preparazione al superamento delle prove (teaching to test), presunti “aiutini” dei docenti per mantenere buoni risultati (no cheating), un non sempre coerente rapporto tra obiettivi di apprendimento del percorso formativo e caratteristiche delle prove, la circostanza che neanche nelle discipline interessate alla valutazione siano previsti tutti i profili dello “statuto disciplinare” e infine, soprattutto, il possibile implicito rapporto tra esito delle prove degli alunni e valutazione degli insegnanti e delle scuole, a prescindere dai contesti concreti in cui operano.
Si tratta di criticità in gran parte superate nel tempo, con la sempre maggiore trasparenza dei dati Invalsi, dei quadri di riferimento delle singole discipline e delle griglie di correzione, con il rinnovarsi delle rilevazioni e, soprattutto, con una più chiara consapevolezza del ruolo di sistema dell’Invalsi, centrato sulle “misurazioni” — senza alcuna valutazione — attraverso prove oggettive e standardizzate, finalizzate a fornire alla scuola ed al docente elementi sulle conoscenze e competenze rilevate, anche rispetto a precedenti rilevazioni e ai parametri di riferimento (benchmark) nazionali, regionali e locali. Ciò tanto più dopo l’eliminazione degli esiti delle prove Invalsi dagli esami di Stato della scuola secondaria di primo grado.
In tal senso comunque una migliore e più stabile definizione della “missione” dell’Invalsi può ancora essere opportuna.
Sarebbe invece a mio avviso negativa la scelta di sopprimere l’ente o di fonderlo con l’Anvur (ente di valutazione delle università), che ha caratteristiche e finalità ben diverse.
Soprattutto, apparirebbe controproducente quella di limitarne sostanzialmente l’autonomia, trasferendo le funzioni valutative all’interno dell’amministrazione — oggi Ministero, domani forse Regione —, e condizionando in tal modo inevitabilmente la sua azione rispetto all’indirizzo politico-amministrativo, non solo per quanto riguarda gli obiettivi e le finalità ma anche la gestione dei programmi e il controllo degli esiti.
Un’eventuale scelta in tal senso sembra poi confliggere anche con l’autonomia delle scuole, statali e paritarie. L’autonomia infatti, presupponendo una crescente “libertà” di definire l’identità del progetto educativo del singolo istituto e dei relativi percorsi formativi, affinché tengano conto con flessibilità del contesto territoriale e dei bisogni formativi degli alunni, richiede necessariamente un sistema di misurazione degli esiti — non, lo si è già sottolineato, di valutazione didattica del singolo alunno — che renda affidabili le scelte degli alunni e delle famiglie. Soprattutto, tale sistema deve supportare le valutazioni complessive delle stesse scuole, aiutandole nei processi di innovazione della didattica, anche “personalizzati”, da realizzarsi tuttavia nel rispetto dei “profili educativi, culturali e professionali” stabiliti a livello nazionale per ciascun indirizzo di studi, nonché degli obiettivi di apprendimento, dei risultati attesi e delle connesse indicazioni nazionali.
Un sistema di valutazione nazionale, efficiente e autonomo, costituisce pertanto il presupposto necessario per un sistema di scuole a loro volta autonome, dotate di una propria identità, anche marcata, ma senza fenomeni di autoreferenzialità circa gli esiti dei processi formativi, che rischierebbero di portare ad una “balcanizzazione” dell’intero sistema scolastico, tanto più in una prospettiva di trasferimento alle Regioni di competenze sostanziali nella gestione delle scuole.