Pioveva, ero in bicicletta. Lui, poi, col cappuccio in testa, la barba. Chi l’avrebbe mai riconosciuto? Una voce fra i clacson: “professore, non si ricorda?”. Chi diavolo era? Sotto quel cappuccio, quella barba… Mi ha suggerito il cognome: “ah sì…”. Che strano: un anno intero siamo stati dentro pochi metri quadri di un’aula, e poi, se lo avessi urtato per strada, nemmeno l’avrei riconosciuto. Eppure è una vita che vado dicendo che bisogna guardarli in faccia, i nostri alunni. Che sono loro al centro, e che a scuola si va per loro. Poi nemmeno l’avrei riconosciuto. Rimane un cognome sfocato, perso in una “nebbia di memorie”. 



Va così anche per rapporti più stretti, del resto: “quale allegria, senza far finta di dormire, con la tua guancia sulla mia, sapere invece che domani ‘ciao, come stai?’, una pacca sulla spalla e via: quale allegria?”. Risalgo in bicicletta mentre questa canzone di Lucio Dalla mi piove addosso. Mi assale l’angoscia che i miei alunni – quelli di adesso – come i miei amici – quelli di adesso – altri non siano che le facce che fra qualche anno non riconoscerò nemmeno più, urtandole per strada. Scoperte, intensità, chiarimenti, litigate, abbracci, risucchiati nel grigiore di una rapida, educata pacca sulla spalla. 



No, non ti ho riconosciuto. Ma c’è di peggio: forse non ti conosco ora. Forse quelli che ho davanti – ora, quest’anno, stamattina – non li conosco. Non c’entrano il cappuccio, la barba, la pioggia: c’entra il cuore, nascosto bene, e noi con le bende agli occhi. Ti vedo ogni giorno, ti parlo, ti valuto, ti aiuto, ti rimprovero: ma ti conosco, davvero? Mi chiedo cosa passa nel tuo cuore? Mentre ti insegno tutto quel che ti insegno, cosa so di te? del legame con tua mamma, della brutta musica che ti s’infila nelle orecchie, della gente con cui chatti, dei pensieri più segreti, di quanto ti senti fuori posto, e mai a posto? Ah, “se, come il viso, si mostrasse il core”, Ariosto mio! 



La scuola iperinclusiva è tanto piena di roba che per te, proprio per te, non c’è più posto. Ora devi lasciare spazio all’inglese o al paragrafo di storia o al Pon qualsiasi o all’Open Day: tu vieni dopo. Come capita quando si esce, e al centro non sei tu: è la serata (la pizza, il film, le chiacchiere: non tu). “Abbiamo parlato, parlato”, come scrive Pavese, ma “non si tocca” – e cos’è, poi? – “la cosa che è più nostra e portiamo nel cuore”.

Tu che passi per strada e l’attimo dopo scompari sei come chi passa qualche mese in classe e poi va via. C’eri tu, davanti a questi occhi, e nella nostra generosità ti abbiamo dimenticato, mentre preparavamo verifiche per te, belle spiegazioni per te, finanche Pdp per te. C’eri tu. Ovviamente. Nessuno lo metterebbe in discussione. Cosa sarà di te? Non siamo mica psicologi, ci giustifichiamo. Questa scuola non era giusta per te: ma quale sarà il posto giusto per te? per te che sei passata e chissà dove sei finita, e per te che sei ancora qui, e chissà dove te ne vai, adesso, quando sei seduta a mezzo metro e non mi ascolti, e anche quando mi ascolti. Certe mattine non ti prendo, lo so; la tua vita è fuori, il risucchio del niente sempre in agguato. Uno studente l’ha detto perfettamente alla Fondazione Intercultura: “uno dei problemi principali è che la scuola è stata una grande parte della nostra vita, ma… la nostra vita non era lì!”. Dov’è la tua vita, dove si annida? È lì in fondo che ogni mattina vorrei arrivare.

Gira in rete l’accalorata richiesta di un collega al ministro: “voglio il badge”, “voglio i 10 minuti di pausa”, “voglio la mensa”, “voglio un bagno pulito”, “voglio aule accoglienti”. Tutto giusto, ci mancherebbe. Manca solo una cosa: “voglio te”. Cioè voglio il tuo bene. Entro in classe per quel “represso gemito / di cui non si sa, di cui non si dice”, come direbbe Pasolini. 

Per carità, lo diamo per scontato: ogni insegnante fa bene il suo mestiere, e tiene ai suoi alunni. Ci tiene come quando assistiamo un parente in ospedale e vogliamo sapere come sta, e passano dottori, infermieri, specializzandi, e non ti fanno capire chiaramente come stanno le cose. Vanno veloci, stanno sempre lavorando, visitando altri. Dimenticano che se tu non fossi malato loro non lavorerebbero. Insomma, l’impressione che c’è sempre qualcosa di più importante, la paura di disturbare, di essere di troppo, di far perdere tempo, mentre è il loro tempo che dovrebbe coincidere col fermarsi da me, spiegarmi, farsi capire. Così la scuola: lo sai, sta finendo il quadrimestre e devo interrogarti, e bisogna pur andare avanti col programma, e non sai quale occasione sia per te portarti a teatro, e ogni tanto staccare la spina per un’assemblea ci sta. Poi c’è la classe, ed è più facile tenerci alla classe che a te. Che il pomeriggio ti senti perso, e cerchi aiuto dove puoi, se lo cerchi. 

Invece l’insegnante non è lì per insegnare: è lì perché tu impari. Mi correggo: perché tu sia. Perché quello che insegniamo ti venga incontro; ma soprattutto perché tu vada incontro a loro, e lo incontri. E, incontrandolo, incontri te stesso. Solo questo mi consolerebbe: io potrei anche non conoscerti, ma tu, tu devi conoscerti. La vita chissà come andrà, e potrei già immaginare che qui dentro forse ce n’è una che domani avrà un figlio troppo presto, e uno che verrà mollato e la pagherà cara, uno che si ammalerà e sarà un disastro, e un’altra che passerà i guai. Forse un giorno sarai tu a non riconoscerti. Arriverà la tua notte dell’innominato, o piangerai tu con le parole di Andromaca, o entrerai nel tuo lager. In quel buio che adesso non vediamo, è lì che si vedrà. Ed è lì che vorrei arrivare adesso: perché lì saprai dirci se tutto quel che ti stiamo insegnando ha avuto senso, o se invece non ci abbiamo fatto caso, coscienziosamente affaccendati sopra un gigantesco carrozzone a farti guadagnare il mondo intero e a farti perdere te stesso.