Termina la lezione, è martedì grasso. Chiedo ai ragazzi cosa faranno l’ultimo giorno di carnevale. Valentina, ottima studente, mi risponde: “Che faccio prof? Lavoro”. Già, Valentina, tu sei una di quei ragazzi che, per motivi familiari, il tempo del lavoro lo conoscono e conoscono la fatica di allinearlo al tempo dello studio. Ma questa tua esperienza non vale niente, letteralmente niente per la scuola italiana. Tu Valentina, come tutti gli altri, in quanto studente liceale, dovrai caricarti sulle spalle anche le tue belle 200 ore di alternanza scuola-lavoro (spesso e volentieri alternanza scuola-fuffa), tu che potresti comodamente insegnare ai tuoi compagni e a qualche politico o a qualche testa pensante del ministero che cosa vuol dire alternarsi tra la scuola e il lavoro. Perché quest’assurdo?
Incontro al supermercato una collega amica, docente d’inglese in un Itis. Si parla di scuola, ovviamente. Negli istituti tecnici le ore di alternanza sono più di 400. La maggior parte (c’era da aspettarselo) svolte di mattina, in alternativa (non in alternanza) alle normali ore di lezione. La collega è disperata: “Non faccio in tempo a riprendere un discorso con gli studenti che già li perdo di nuovo. Quando tornano devo ricominciare sempre da zero. E poi lo sai come sia difficile motivare un ragazzo che frequenta un istituto tecnico…”. Qualcosa ne so, cara collega, e ora che sono in un liceo classico non vorrei proprio trovarmi nella tua situazione. Ma perché ci siamo ridotti così?
Una studente, una collega. Piccole storie di una “scuola che cambia”. Bello slogan, la scuola cha cambia. Domanda: qualcuno aveva chiesto questo tipo di cambiamento? Qualcuno sa dirmi perché in due-tre anni abbiamo stravolto la scuola superiore italiana? Qualcuno sa dirmi perché continueremo a stravolgerla riducendola a quattro anni? Non mi si risponda con il solito “ce lo chiede l’Europa”, perché non è una risposta. L’Europa siamo anche noi, noi italiani, con la nostra storia educativa, con un sistema per certi versi arrangiato e cialtrone, che però ha dato e dà ottimi frutti (nel mio piccolo lo capisco valutando l’esperienza dei miei studenti che fanno un anno all’estero). L’Europa non è un Leviatano che si divora tutti, una matrigna che ci impone una dittatura culturale. E, se lo è, che vada a quel paese! Siamo in Europa come italiani e non è detto che per starci si debba per forza buttar via il bambino con l’acqua sporca.
Allora domando ancora: “Perché?”. Sorprendentemente noto che la domanda non interessa. Si fa così e basta. Il ministro ha promesso un telefono rosso per segnalare eventuali abusi nei progetti d’alternanza. Il nuovo contratto della scuola prevede un incentivo per i tutor (che è il minimo che si possa pretendere). Ma quelle 200 o 400 ore non si toccano. Si devono fare (con tutto l’aggravio che comportano anche sulla struttura scolastica, tutto lavoro in più per tutti senza averne le risorse). La scuola italiana non deve essere più quella di prima. La rivoluzione è stata fatta sotto gli occhi di tutti, nel generale torpore, accettata abbassando la testa, come capita spesso o sempre. Ed è sicuramente significativo che di questo non parlino le forze politiche nella loro campagna elettorale, che questo problema non sia messo a tema, che lo stravolgimento non venga denunciato.
Quando penso alle innovazioni che vengono introdotte nella nostra scuola (e al modo in cui vengono introdotte) mi torna sempre in mente quell’episodio dell’Esodo in cui il Faraone d’Egitto dà un ordine perentorio che ricade sui poveri ebrei: “Non darete più la paglia al popolo per fabbricare i mattoni. Si procureranno da sé la paglia. Però voi dovete esigere il numero di mattoni che facevano prima, senza ridurlo. Perché sono fannulloni. Per questo protestano”. Mettete al posto della paglia le ore di lezione e al posto dei mattoni i contenuti delle discipline insegnate e avrete la perfetta fotografia di quanto avviene oggi. Capirete il disagio della mia collega o quello di molti studenti e di molte famiglie.
Gli ebrei andarono a protestare dal Faraone e gli chiesero “Perché non ci dai più la paglia?”. Ecco, è questa domanda che nessuno ha fatto e sta facendo. Si constata, si subisce, si soffre il disastro, ma non ci si chiede perché è stato programmato e realizzato. Lo chiede l’Europa? Lo chiede il mercato del lavoro? Lo chiede Trump? O la Merkel? Chi lo chiede? Chi l’ha detto che questa nuova scuola sia davvero quello che ci vuole? Perché stiamo sperimentando un liceo quadriennale? E’ una fissa del ministro? Le domande sono importanti. Le leggo negli occhi dei miei studenti, dei miei colleghi. Ma restano inespresse, non arrivano alla ribalta, non vengono scritte in agenda. A volte, e questo è triste, nessuno le fa proprio più. Andiamo avanti, guardiamo il bicchiere mezzo pieno e cerchiamo di parare i colpi finché e fin dove si può. Come gli ebrei in Egitto alle prese con i mattoni senza la paglia. Loro almeno una risposta la ebbero. Noi, invece, cara studente, cara collega, evitiamo le domande: non c’è risposta.