Un recente intervento di Daniele Checchi e Maria de Paola su lavoce.info (“Dove nasce la crisi delle scuole paritarie“, 16 gennaio) ha riaperto il dibattito sul tema della quantità, qualità e funzione delle scuole paritarie. Evitando ogni polemica (anche perché, fra me e Daniele, si tratterebbe di un déjà vu…), provo a riprendere alcuni spunti di discussione.



1. La crisi delle paritarie. I dati riportati dagli autori segnalano un calo sia delle istituzioni che degli alunni: 44 scuole (-1,1%) e 12.830 studenti (-3,7%). Ma il confronto con il settore statale evidenzia che, se le scuole sono calate di pochissimo (55, pari allo 0,2%), gli studenti sono diminuiti proporzionalmente più che nel settore paritario: -351.508, pari al 5%. La dura legge del mercato libero costringe le scuole paritarie inadeguatamente frequentate a chiudere, mentre il mercato protetto delle scuole statali può permettersi di mantenere in vita tutte o quasi le scuole indipendentemente dal numero degli studenti. Bisognerebbe scendere al livello delle classi, più che delle scuole, per avere un dato più affidabile, ma questa è già un’indicazione interessante.



Nella scuola statale, inoltre, sono presenti 234.658 bambini con bisogni educativi speciali, supportati da 138.849 posti di insegnanti di sostegno. Nella scuola paritaria il contributo statale per ogni bambino disabile è di meno di 2mila euro l’anno, il che comporta che il sostegno sia pagato dai genitori o dalla scuola stessa, e inevitabilmente la quota di alunni disabili è minore, anche se in considerevole aumento.

2. Sempre parlando della tipologia degli iscritti, nella scuola statale è presente un 10% circa di alunni stranieri. Nella scuola paritaria i bambini stranieri sono proporzionalmente molti meno, perché le loro famiglie non possono permettersi di pagare la retta, anche se una tesi di dottorato di cui l’autore, Matteo Piolatto, ha anticipato in un recente convegno alcuni dati, mostra che la percentuale di famiglie di stranieri di seconda generazione che spostano i loro figli dalla scuola di zona a una scuola paritaria raddoppia rispetto alla prima generazione, e si avvicina a quella degli italiani.



Il che significa che le due fasce deboli della popolazione studentesca che contribuiscono a far crescere i numeri (o a contenere il calo) nella scuola statale, disabili e stranieri, non lo fanno solo per scelta, ma anche per necessità, perché l’attuale sistema di finanziamento non consente alle famiglie di compiere scelte diverse. Per chi ha un reddito inferiore a una certa soglia, le — modeste — detrazioni fiscali non raggiungono il minimo necessario a permettere una reale libertà: sono i meccanismi di finanziamento, non la natura della scuola paritaria, a far sì che possa scegliere solo chi è in grado di pagarsi la scelta. Per questo ritengo che sia fortemente opinabile la dichiarazione che “la causa del declino non è da imputare a motivi di natura economica”.

Sull’entità assoluta e proporzionale dei finanziamenti e sulla loro destinazione, rimando ai contributi di Roberto Pasolini già apparsi su queste pagine.

3. Veniamo adesso alla seconda parte delle riflessioni, e cioè le motivazioni della scelta e le conseguenti tipologie di studenti. Queste motivazioni (cito dal testo) sarebbero quella di garantire ai propri rampolli (i rampolli sono tipicamente di classe medio-alta: altrimenti sono figli…) una formazione e un network di qualità, ma anche di conseguire un titolo di studio senza molto impegno: in un lavoro di qualche anno fa, Checchi parlava di studenti di classe medio-alta che non erano in grado di sostenere le elevate richieste del sistema pubblico.

Vanno però aggiunte, sia secondo la letteratura sociologica che ricavando l’informazione dalle non molte ricerche in proposito, almeno altre due motivazioni: quella identitaria, di famiglie che vogliono garantire ai propri figli una coerenza con i valori famigliari che la casualità dei docenti nella scuola statale non consente, e quella di tutela, che desidera per i propri figli un ambiente più protetto e in qualche modo più “famigliare” (safe and small, dicono in America), tant’è vero che il 70% dei bambini del sistema paritario sono nella scuola materna.

4. E veniamo ai “diplomifici”. A dire il vero, gli autori si limitano a parlare di percorsi facilitati e di maggior presenza di ragazzi con percorsi accidentati alle spalle. Posto che certamente scuole di questo tipo esistono, e non è difficile individuarle, e che le scuole che offrono percorsi abbreviati del tipo “pago due e prendo tre” non sono scuole paritarie, e hanno un’offerta formativa diversa, resta il fatto che molte famiglie scelgono una scuola paritaria, o passano a una scuola paritaria, spesso dopo un’esperienza negativa in una statale, perché ritengono che nel settore paritario la centralità dell’alunno sia praticata oltre che dichiarata, se non altro perché altrimenti i genitori ritirano i propri figli e li mandano altrove… Per lo stesso motivo molte famiglie ritengono che nella scuola paritaria sia possibile una maggiore effettiva partecipazione.

Non intendo riproporre qui considerazioni molte volte fatte sul risparmio che il sistema paritario consente allo Stato o sulla concorrenza che lo Stato esercita riprendendosi giovani insegnanti formati e qualificati nelle paritarie o altri temi che pure mi stanno molto a cuore; vorrei solo riprendere l’ultima frase dell’articolo: “le scuole paritarie se vogliono recuperare terreno debbono tentare con maggiore convinzione la strada della differenziazione” per dichiarare il mio completo, direi entusiastico accordo.

Se c’è un errore mortale che il sistema paritario può fare, è quello di imitare la scuola statale, in un confronto da cui probabilmente uscirebbe perdente: un sistema di qualità deve essere un sistema integrato, statale e paritaria, cioè privata accreditata, ciascuna con la sua offerta specifica e di qualità, ciascuna in grado di stipulare un patto con i propri utenti. Solo che, se una delle due scuole corre nel sacco, perché non riceve nessun tipo di contributo pur svolgendo un ruolo pubblico, e docenti e studenti sono considerati figli di un dio minore, il possibile effetto virtuoso della collaborazione competitiva si annulla, e continueremo per i secoli dei secoli a parlare dei diplomifici e della “scuola dei ricchi”.