Com’è noto, il Consiglio di Stato ha accettato il ricorso presentato da un centinaio di studenti contro la decisione del Politecnico di Milano di tenere un certo numero di corsi solo in lingua inglese, stabilendo che debbano essere ripetuti anche in italiano (il che significa che quasi certamente verranno aboliti, visto che le nostre università da molto tempo lavorano al limite delle loro possibilità, a causa della drammatica mancanza di risorse e dell’altrettanto drammatico eccesso di burocrazia).



Com’era prevedibile, la sentenza ha suscitato molte reazioni indignate contro la “solita Italia” provinciale e incapace di modernizzarsi, che però sono del tutto fuori luogo, e non solo perché vengono in gran parte da giornalisti che non sanno parlare né l’inglese né l’italiano: ad essere drammaticamente provinciale, infatti, è proprio l’idea che insegnare in inglese rappresenterebbe un progresso per la nostra università.



Anzitutto il luogo comune che “ormai dappertutto si parla inglese” è una solenne sciocchezza. Questo è abbastanza vero (pur con alcune significative eccezioni) in campo scientifico, ma lo è già molto meno in quello umanistico e meno ancora in quello commerciale. Per esempio, in un congresso internazionale su Dante è normale che si parli in italiano: che esperto sarebbe, infatti, quello che non conoscesse la lingua dell’autore che studia? Oppure provate a fare un viaggio in America Latina in cerca di partner commerciali parlando in inglese e ve ne accorgerete! La cosa più probabile è che non solo ve ne torniate a casa con le pive nel sacco, ma anche a stomaco vuoto, perché non riuscireste nemmeno a ordinare da mangiare. Per non parlare di posti come Russia, Cina e Sud-Est asiatico, da dove rischiereste di non tornare proprio (provate a chiedere la strada in inglese a Pechino o a Vladivostok: sarà un’esperienza interessante). E badate che stiamo parlando di paesi emergenti, in cui vive la metà della popolazione mondiale e che probabilmente nel prossimo futuro rappresenteranno anche più della metà dell’economia mondiale. Quindi, se è vero che un giovane che si prepara ad entrare nel mondo del lavoro oggi ha buone probabilità di aver bisogno di sapere qualche lingua straniera, non è affatto scontato che tale lingua sia l’inglese.



Ma anche in campo scientifico, dove l’inglese è davvero “la” lingua internazionale, bisogna stare molto attenti a non cadere nelle trappole dei luoghi comuni, perché una cosa è comunicare ciò che già si è compreso e un’altra, ben diversa, è scoprire ciò che ancora non si sa. 

Io partecipo da vent’anni a congressi internazionali dove si parla esclusivamente inglese, sono stato Fellow della Oxford University e ho un’intensa attività di visiting professor in Perù dove ho passato complessivamente circa due anni. Conosco quindi molto bene inglese e spagnolo, tanto che quando scrivo un articolo in genere non traduco dall’italiano, ma penso direttamente nella lingua di destinazione (una volta ho perfino scritto una dispensa in spagnolo mentre ascoltavo una conferenza in inglese) e durante i periodi di “full immersion” mi sorprendo spesso a pensare ai fatti miei nella lingua locale. Ciononostante, quando devo pensare a qualcosa di davvero nuovo, penso in italiano.

Il motivo è che la lingua non è semplicemente uno strumento, come pretende la mentalità positivista oggi dominante, per cui passare dall’una all’altra sarebbe un mero problema tecnico. Al contrario, la lingua è parte di noi, informa la nostra personalità fino al midollo delle ossa e condiziona, almeno in parte, la nostra stessa percezione della realtà, perché è l’espressione viva della cultura di un determinato popolo. Io parlo inglese e spagnolo molto meglio di tante persone di madrelingua, ma non riuscirò mai a esprimermi come fanno loro. Certo è possibile immedesimarsi con una lingua fino al punto di capirne lo spirito profondo, ma intanto ci vuole molto tempo e soprattutto un feeling speciale che non decidi tu, e comunque, per quanto tu faccia, quelle parole non risuoneranno mai spontaneamente in te come fanno in chi se le porta dentro dalla nascita, anche se magari parla in modo sgrammaticato e scorretto. Quindi costringere docenti e studenti a comunicare in una lingua non loro renderebbe molto più difficile l’apprendimento della materia, mentre darebbe vantaggi molto limitati dal punto di vista dell’apprendimento della lingua.

Infatti l’altra cosa da capire è che lo “scientific English” che si usa nei congressi e nelle pubblicazioni ha ben poco a che vedere con l’inglese normale, perché si tratta di un linguaggio molto tecnico e standardizzato, che richiede di conoscere solo le regole grammaticali e sintattiche di base insieme a un numero piuttosto limitato di parole (è stato dimostrato che per un qualsiasi argomento settoriale ne bastano circa 300) e inoltre si usa per comunicare con persone che hanno all’incirca le nostre stesse conoscenze e che sanno già più o meno di cosa parleremo. Per questo molti scienziati se la cavano perfettamente finché parlano del proprio lavoro, ma vanno in difficoltà non appena si va a cena e si comincia a chiacchierare del più e del meno (e soprattutto a fare battute, che sono il vero test per capire se uno parla bene una lingua straniera). Quindi non è affatto scontato che uno scienziato italiano sappia parlare bene l’inglese solo perché ha un’intensa attività internazionale, mentre è certo che, anche se lo sapesse parlare perfettamente, non riuscirebbe mai a spiegarsi come farebbe parlando in italiano.

Molto meglio perciò lasciare che gli studenti studino le materie, comprese quelle scientifiche, nella propria lingua, in modo che possano comprenderle al meglio, dopodiché, quando sapranno davvero di cosa stanno parlando, riuscirà loro molto più facile anche spiegarlo in un’altra lingua.

Diverso, naturalmente, sarebbe il caso di un corso in inglese tenuto da un docente di madrelingua. E probabilmente dietro all’idea del Politecnico c’era anche in parte la convinzione che così sarebbe stato più facile attirare docenti stranieri. Ma si tratta di un equivoco madornale, perché ciò che tiene lontani i docenti stranieri dalle università italiane non è né la nostra lingua (che tra l’altro nel mondo è molto più conosciuta e apprezzata di quel che si crede) né la nostra presunta scarsa qualità (che è invece ancora miracolosamente altissima nonostante le sciagurate politiche ministeriali degli ultimi trent’anni: e all’estero lo sanno benissimo, tant’è vero che fanno a gara per accaparrarsi i nostri laureati). I veri motivi sono la drammatica mancanza di risorse e le regole folli a cui siamo sottoposti, come dimostra il caso dell’IIT di Genova, l’unico centro di ricerca italiano che funziona secondo le regole internazionali e dove, guarda caso, i docenti stranieri sono circa il 50 per cento, tutti provenienti dalle migliori università del mondo. Ma di questo bisognerà riparlare in un altro articolo.

Per intanto applaudiamo alla decisione del Consiglio di Stato e speriamo che la sentenza venga presto applicata anche alla scuola, dove è in corso da tempo un analogo tentativo con il famigerato Clil (Content and Language Integrated Learning, ovvero apprendimento integrato di lingua e contenuto), per fortuna ancora in fase sperimentale. Se dovesse mai diventare una pratica generalizzata, rischierebbe di dare il colpo di grazia al nostro già malconcio sistema educativo.