Non è vero che il sacrificio teologico della Croce abbia interrotto la comoda tradizione antropologica, sociale e politica del capro espiatorio. Di capri espiatori sono invece piene le giornate. Dappertutto. In ogni problema. Perché, del resto, guardare la trave nel proprio occhio e procedere ad impegnativi esami di coscienza e di azione se è così rassicurante vedere sempre la pagliuzza nell’occhio dell’altro, e anche meravigliarsene, sgomenti?  



Tutti i mass media, in questi ultimi giorni, si sono stracciati le vesti per la scarsa (è un pietoso eufemismo!) padronanza linguistica ed ortografica dell’italiano dimostrata dai candidati al concorso per insegnare nelle scuole dell’infanzia e primaria del Friuli (tre bocciati su quattro agli scritti). Un tempo i maestri avevano insegnato a scrivere bene e senza errori a generazioni di studenti. E avevano fatto, in tutto, 12 anni di scuola. Adesso che ne fanno obbligatoriamente almeno 18 (13 di studi pre-universitari e 5 universitari) scriverebbero un’evento, aquistato, rattopare, disciendente, xché, xke, cmq, usano il verbo avere senza acca, virgole e punti sparsi a caso, doppie che saltano o che non andrebbero fatte, congiuntivi sconosciuti, consecutio inesistenti, verbi ai modi e ai tempi sbagliati, sintassi delle frasi e dei periodi stravaganti; movenza argomentativa inesistente ecc. 



Disarmante. Certamente. Ma perché puntare il fascio di luce solo sulle inadeguatezze dei candidati maestri? In realtà, infatti, quanto accaduto in Friuli, con percentuali differenti ma sempre patologiche, è accaduto con tutti i concorsi a cattedre banditi in base alla legge 107/2015 per ogni ordine e grado di scuola. Al punto che molte cattedre messe generosamente a concorso (per oltre due terzi in alcune discipline scientifiche e tecnologiche, per il 50 per cento circa nelle discipline letterarie) sono rimaste inoccupate. Il paradosso è che alla fine sono state coperte con iscritti alle famose graduatorie a esaurimento (Gae) nazionali che, per legge, si sarebbero dovute eliminare nel 2008, ma che, se andrà bene, lo saranno minimo tra 15 anni, ma più, ragionevolmente, lasciando la normativa attuale, tra 30 anni. Iscritti, questi delle Gae, che non danno di sicuro garanzie migliori dei bocciati ai concorsi ordinari. 



Disarmante per la seconda volta, dunque. Certamente. Ma perché colpevolizzare i singoli aspiranti al cosiddetto “corpo docente” e non spostare l’attenzione sulle strutture che autorizzano un “corpo” con deficienze così conclamate? Non è a sua volta deficiente un sistema che ottiene questi risultati? Perché lo si tollera? Perché non lo si è cambiato? Perché non lo si cambia? Non è che, forse, va bene proprio per poter continuare ad avere dappertutto casi Friuli, con capri espiatori predeterminati? 

Due piccoli indizi che diventano tuttavia significativi se spostati a livello di sistema. Il concorso del Friuli doveva finire nel 2016. Tra commissioni d’esame dimissionarie, plichi perduti e ritrovati e altre disavventure amministrative sono arrivati alla conclusione delle prove scritte adesso. Come valutare una pubblica amministrazione così inefficiente? E soprattutto un impianto normativo burocratico-sindacale come quello centralistico che la esige? 

Secondo indizio. Anche un po’ paradossale. A sollevare il caso del Friuli sono stati commissari esaminatori che in interviste a giornali hanno mostrato il loro peraltro giustificato sgomento con queste parole: “le elementari sono il momento in cui i bambini iniziano a imparare i fondamentali, in cui mettono le basi per la conoscenza successiva. La grammatica che servirà loro per tutta la vita si impara in quegli anni. Una maestra elementare come fa a insegnare se fa errori così?”. 

Ma le “elementari” sono 15 anni che si sarebbero dovute trasformare per legge in “primarie”. Non è una questione nominalistica. È che, in 15 anni, ha fatto comodo a tutti, e pure ai giornalisti che “riportano fedelmente le dichiarazioni dei commissari” e nondimeno a chi firma appelli su appelli per tornare al Panzini, continuare a trattare la “primaria” come fosse una “elementare”. Nell’organizzazione, nei metodi, nei contesti, nei fini, negli strumenti di governo, nella stessa preparazione dei docenti (non è una laurea, infatti, che fa la differenza). Servivano invece interventi strutturali di sistema, anche sociale e culturale, ben mirati e, soprattutto, coerenti nel tempo per non rendere flatus vocis un cambio programmatico di parola. E tutti spostati sulle competenze autentiche, non sulle etichette formali ed astratte o sulle sdegnate deprecazioni pubbliche.   

D’altra parte, a chi vogliamo attribuire la responsabilità del fatto che, oggi, una buona parte degli studenti universitari non solo per le lauree scientifiche ma anche umanistiche, diventano “dottori” presentando elaborati finali da semianalfabeti per lo più copiati male, e senza nemmeno intelligenza, da internet? Agli studenti? Oppure ai docenti universitari che, in numero sempre maggiore, dinanzi ad una situazione del genere, non correggono più gli elaborati finali (e spesso neanche le tesi magistrali e perfino di dottorato) proprio perché scritte in questo modo? 

Non scherziamo. I docenti universitari che correggono elaborati inaccettabili, infatti, si sottopongono ad una sterile fatica di Sisifo perché un laureando, se non conosce l’italiano, continuerà, comunque, a non conoscerlo. Del resto, non si può imparare a scrivere in lingua a 22, 24 o peggio 29 anni se non lo si è fatto prima. L’Italia ha già pochi giovani con titoli di studio superiori, viste le scelte stupide ed ideologiche perseguite dalle politiche formative adottate dagli anni settanta in poi. Se non si laureassero con indulgenza neanche questi giovani che hanno così poca padronanza della lingua materna avremmo percentuali inferiori di laureati anche ai peggiori paesi del cosiddetto terzo mondo.  Ma perché chiamare in giudizio soltanto i singoli giovani o i singoli professori di tutto questo?   

Ci vuol altro, dunque, che debate flipped lesson, challenge based learning, problem solving, case study, cicle time team working, cooperative learning, strategie didattiche peer to peer, pratica di team leader, frequenza di contamination lab (CLab) e via di seguito, con tanto di politicamente più corretto libera la retorica ministeriale e accademica sull’innovazione didattica contemporanea, per rilanciare la qualità della scuola italiana intesa come spazio fisico, esperienza relazionale e laboratorio culturale dove si incontrano rigore, creatività, vocazione e talento degli studenti. Non occorre essere strutturalisti o sistemisti per capire che i contenitori contano. Eccome. A volerli, però.