Non intervenga lo Stato, là dove gli enti inferiori sono capaci di organizzare risposte alle esigenze dei cittadini. Mai principio sussidiario fu più attuale che nell’ora presente in cui, mentre il governo centrale è in panne, le Regioni si organizzano per rispondere agli interessi della collettività. È il caso, forse passato troppo sotto silenzio nella convulsa fase elettorale, di tre Regioni italiane: Emilia Romagna, Lombardia e Veneto, che, assolto l’iter di approvazione dei rispettivi organi rappresentativi, hanno firmato lo scorso 28 febbraio un accordo con lo Stato centrale in vista dell’autonomia differenziata.
L’intesa dovrà essere perfezionata da una legge nazionale e riguarda materie che ampliano l’autonomia regionale, come lavoro, istruzione, salute e ambiente. Frutto del negoziato è stata anche l’accesa dialettica tra centro e periferia sorta in seguito ai referendum autonomistici dell’ottobre scorso in Lombardia e Veneto. Per il Veneto il presidente leghista Zaia chiese lo statuto speciale, incanalando poi il consenso ottenuto nella direzione più ragionevole dell’autonomia differenziata che si colloca nell’alveo della Costituzione. Il testo base della nostra convivenza civile, infatti, all’art. 116, comma 3, dopo avere accordato ad alcune Regioni lo statuto speciale (Friuli Venezia Giulia, Sardegna, Sicilia, Trentino-Alto e Valle d’Aosta) esplicita che “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” possono essere concesse ad altre, con legge dello Stato. L’accordo delle tre Regioni leader, così diverse tra di loro per storia e tradizioni politiche, fatto salvo il terremoto del 4 marzo, è stato giudicato storico dagli allora rispettivi presidenti (uno è già cambiato: in Lombardia c’è Fontana al posto di Maroni, ma la visione politica non dovrebbe mutare).
Per quali motivi? In teoria alle Regioni dovranno andare i trasferimenti corrispondenti alle tasse versate o alle risorse risparmiate. In termini ancora più comprensibili, alcune risorse dovranno essere trattenute alla fonte. Sarà così? Vedremo. Nel frattempo registriamo che, al capitolo “Risorse”, si fa esplicito riferimento alla compartecipazione regionale dei tributi maturati e a fabbisogni standard di cui lo Stato terrà conto. Tra le materie elencate nell’art. 117 del testo costituzionale cui occorre fare riferimento si trovano anche le famose e fumose competenze concernenti l’istruzione. In base ad esse al governo centrale spettano le disposizioni generali e comuni sull’istruzione, l’ordinamento scolastico e l’istruzione universitaria. Alle Regioni competono l’istruzione e formazione professionale (IeFP) più tutto il resto dell’istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche, ossia i servizi scolastici e la promozione del diritto allo studio, anche universitario.
Come si sa, le tre Regioni in questione hanno legislazioni scolastiche che differiscono anche nella sostanza, almeno per quanto riguarda l’istruzione e formazione professionale. Non è ovviamente in questo campo che interviene l’intesa, quanto piuttosto sull’organico regionale che è elemento non meno intricato dei precedenti, almeno da quando riforma Gelmini e riforma Renzi (la Buona Scuola) ne hanno fatto in qualche modo il perno dell’autonomia, diventata però per molti insegnanti assegnati alle cattedre senza criterio una via crucis “in” autonomia. Bene: l’accordo, valido dieci anni, assegna alle Regioni la programmazione della dotazione dell’organico in relazione alle necessità delle scuole, da realizzare in sintonia con gli Uffici regionali (Usr). Per queste esigenze si prevede la costituzione di un fondo regionale che dovrà intervenire anche a coprire eventuali fabbisogni di organico aggiuntivo sui percorsi IeFP. La medesima intesa fissa poi alcuni criteri concernenti l’organizzazione del sistema degli istituti tecnici superiori (Its), nonché, sul versante dell’università, l’attivazione di un’offerta integrativa di percorsi universitari. Si fa infine menzione di ulteriori fondi per l’edilizia scolastica e il diritto allo studio.
Insomma una piccola rivoluzione, per accennare solo alla scuola (ma ci sarebbero anche gli altri punti), che cammina mentre la politica nazionale guarda altrove. E se non una rivoluzione, una serie di risposte concrete dell’amministrazione ai bisogni di educazione e formazione mediante la redistribuzione sussidiaria delle entrate dello Stato. Viene da pensare che l’Italia sarebbe davvero un Bel Paese se non ci si accapigliasse sul tema di ciò che non va nell’occhio dell’avversario e si guardasse, come dice una certa pubblicità, non ai sogni ma a solide realtà.