Entro in classe per una supplenza. Ultima ora in una terza liceo. Un ragazzo sussurra: è il prete! Tolgo la sciarpa e ormai con il colletto in vista, rispondo: “Sì, sono il prete!” In una supplenza di un’ora un professore di religione può far poco, mi dico tra me. Li lascio studiare latino a patto che stiano in silenzio. Ovviamente in una classe di sedicenni, il silenzio è una sfida improbabile. Per questo dopo dieci minuti, dico: “L’avete voluto voi, ora faccio lezione”. Apriamo la lim e guardiamo una scena tratta dal film: Un sogno per domani. E lì inizia il dialogo.
Nella scena del film, il professore chiede: “C’è un mondo là fuori e anche se non lo vorrete incontrare vi colpirà dritti in faccia… che significa il mondo per ognuno di voi?”. A questa domanda i ragazzi iniziano a dire: il mondo è ciò che abitiamo; il mondo è la realtà, ciò che ci ricorda; il mondo è le persone che amiamo. Ma nel film, il professore incalza: “E se il mondo… che succede se il giorno in cui siete liberi, non siete preparati e vi guardate intorno e il mondo non vi piace? E se il mondo fosse un’enorme delusione?“. Se il mondo fosse una grande delusione, non è questo l’incubo di ogni uomo che decide di prendersi sul serio? Risponde un ragazzo: “Ci adattiamo!”. È vero, chiunque avrebbe detto così. Quando la realtà non appare all’altezza dei propri desideri e la fatica di portare avanti ciò che in cui credi e che vorresti raggiungere, si fa sentire, il pericolo è proprio questo: adattarsi. Sembrerebbe l’investimento più logico e opportuno: ma poi se ti adatti e perdi te stesso, che cosa puoi farne della tua vita?
La conversazione va avanti, mentre i ragazzi iniziano a pensare che l’unica strada per affrontare la realtà non è fuggire o ripiegarsi. La realtà è testarda, segue il proprio verso e conosce le sue ragioni. In questo caso, cosa fare? Piegarsi? Rinunciare? Oppure iniziare a “capire” questa realtà senza rinunciare a se stessi. Del resto la realtà fa emergere sempre la sproporzione tra ciò che esiste e ciò che desidera il cuore. Ma, a motivo di questa sproporzione, siamo forse autorizzati a vivere da rinunciatari? La risposta dei ragazzi ora è unanime: no! Non possiamo rinunciare! Il film continua con un’altra domanda del professore, che diventa anche la mia. Chiedo ai ragazzi: cosa si aspetta il mondo da te? La prima risposta, quella più ovvia e triste: niente! “Cosa si dovrebbe aspettare il mondo da me? – continua un altro – il minimo che gli altri si aspettano da me è che non combini guai”. Un altro: “Finire gli studi, trovare un lavoro, mettermi a posto!”. Eppure sono tutte cose da fare o da evitare. È possibile che ci sia un’attesa più grande delle cose da fare?
La domanda sembra ridicola e retorica. Ma se qualcuno nutre delle attese su di me, vuol dire che ho valore. Se qualcuno attende da me, significa che sono riconosciuto come portatore di un bene prezioso. Essere circondato dall’attesa di un altro, vuol dire respirare stima, simpatia, benevolenza. Spesso abbiamo paura di comunicare le nostre attese, per non apparire induttori di ansia da prestazione, quando in realtà a far male sono le pretese e non le attese. La stessa struttura dell’uomo è fatta di attesa. Diceva don Giussani. L’attesa «non è un calcolo: è data. La promessa è all’origine, dall’origine stessa della nostra fattura. Chi ha fatto l’uomo, lo ha fatto “promessa”. Strutturalmente l’uomo attende; strutturalmente è mendicante: strutturalmente la vita è promessa» (Il senso religioso, Rizzoli, Milano 1997, p. 71).
La lezione è finita. In un’ora di religione in più, abbiamo parlato di realtà, delusione, sogno e attesa. Qualcuno dei ragazzi che non sono miei alunni, iniziano a salutare lungo i corridoi da quel giorno. Certo, è bastata una scena di un film per ridestare un’attesa. Si parla tanto dei giovani. Eppure mai come in questo momento non sappiamo neanche chi sono i giovani. Tutti vogliono apparirlo, ma pochi esserlo veramente. La giovinezza è un grido di vita. Eppure i giovani sono “altrove”! Non abitano più un mondo di adulti alle prese con la fatica di non crescere mai. Ma, la paura di confrontarsi con una realtà che sa di delusione è forte. Ma chi sta vicino ai giovani, cosa fa per aiutarli a vincere questa paura? Per superare una paura, è necessario guardare in faccia ciò che ti fa paura. E la realtà chiede di essere guardata, ma con occhi diversi. Con gli occhi di chi attende da te qualcosa, perché tu sei un bene, sei prezioso. E non solo io, ma il mondo intero, può aspettarsi qualcosa da te.
È finita l’ora di religione, la campanella è suonata. Vado nella mia classe di seconda artistico. Porto con me questo discorso fatto con i ragazzi della terza liceo, incontrati per caso e chiedo ancora: cosa si aspetta il mondo da te? Questa volta mi risponde un ragazzo e mi dice: “A meno che uno come te non ci tenga molto, niente andrà meglio o sarà risolto” (Dottor Seuss). Cosa si aspetta il mondo? Che tu ci tenga molto alla tua vita, al tuo cuore, alla tua realtà, a te stesso, a chi ami.
Roberto Tomaino