Caro direttore,
episodi come la recente vicenda del carabiniere che ha sterminato la famiglia e poi si è ucciso sono ormai cronaca quotidiana a cui non sappiamo più come rispondere. Sono spesso drammi annunciati, con richieste di aiuto alla polizia ed evidenze agghiaccianti, ma non si riesce a fermarli.
Ho avuto modo di ascoltare un commento a quanto accaduto da parte di padre Livio Fanzaga, direttore di “Radio Maria”, che è un uomo intelligente e concreto. La sua opinione è che c’è un “vuoto legislativo”. A mio parere non c’è il vuoto. Basterebbe applicare le norme penali contro le minacce, le aggressioni, il disturbo della quiete pubblica. Sono norme, soprattutto quella sulla quiete pubblica, che non vengono più fatte osservare a causa di complicità culturali che hanno segnato per anni la nostra cultura di massa. Generazioni intere negli ultimi cinquant’anni hanno aborrito la quiete pubblica e desiderato vite emozionanti anche se contro le regole.
Le canzoni dell’amatissimo De André — ma è solo uno degli infiniti esempi possibili — invitano all’omertà nei confronti di assassini e prostitute e alla complicità contro le forze dell’ordine. Musiche indimenticabili e testi splendidi, che ci hanno permesso di fare i “liberal” gratis, senza pagare alcunché.
Ma la realtà ci sta ormai dimostrando ogni giorno che la società liberata dalle protezioni storiche, sia culturali e morali sia coercitive, si spappola e la prepotenza di persone apparentemente normali che perdono il senso profondo del limite disgrega la vita collettiva.
Ne abbiamo una prova macroscopica nella vita quotidiana delle nostre classi dove la retorica perdonista ha reso ormai quasi tutte le classi ingovernabili. Ma gli intellò ancora oggi non vogliono prendere atto della nuova situazione e continuano a fare la lotta contro — udite udite — l’autoritarismo. Ne ho avuto la prova alcune sere fa assistendo a una conferenza di Ezio Aceti, psicologo dell’età evolutiva, che con toni da invasato urlava contro i metodi educativi tradizionali gettando anatemi contro genitori, professori e preti che si impongono alla vecchia maniera e non liberano e non amano. Dove vive costui?
Ma il nodo vero sta nella nostra incapacità di coniugare la libertà con l’ordine. La mia generazione combatté contro l’autoritarismo chiedendo più libertà individuale. Sotto colpi poderosi e di massa l’impianto culturale e giuridico che difendeva l’ordine pubblico e la quiete pubblica si è spappolato. Oggi capiamo che bisogna ricostruirlo.
Certo non possiamo semplicemente tornare da un eccesso a quello opposto. Dovremmo avere capito che interesse dell’individuo e interesse della collettività vanno coniugati ed estesi insieme. Ho spesso citato il rifiuto generalizzato dell’allontanamento dall’aula dell’alunno che disturba. Una misura semplice, efficace, non invasiva. Eppure messa “fuori legge” nelle nostre scuole, dove notissime immagini documentano il degrado della classe e la rinuncia dei docenti al buon governo della medesima. Una rinuncia disperata che a volte degenera nell’eccesso opposto e cioè perfino in atti inconsulti di violenza fisica. Sono rari ma crescenti, come dimostrano le pagine dei giornali. Oggi il compito di castigo, non scritto in alcun regolamento, è la minaccia più usata assieme alla negazione della gita scolastica e alla nota… collettiva. Tutte misure non dette, legalmente insostenibili, ma di vastissimo uso.
Dire no al vecchio autoritarismo non può significare la rinuncia ad organizzare una sostenibile vita quotidiana adatta alla grande maggioranza, prevedendo anche misure precise per la gestione ordinaria degli studenti in sofferenza o in difficoltà. Con percorsi e risorse specifiche. L’emergenza deve prevedere misure, anche energiche fino all’efficacia vera, di contenimento e successiva gestione del deragliamento individuale.
Nella scuola ho applicato questi criteri trovando anche soluzioni efficaci. Orari personalizzati per i casi limite, allontanamento dalla classe dei disturbatori che spesso desiderano e acconsentono ad una estrazione fatta senza disprezzo e brutalità ed accompagnata da una persona dedicata a spiegare, consolare, ammonire, ricucire.
La Chiesa cattolica finì sotto accusa negli anni Settanta perché sosteneva la predominanza benefica della morale sull’individuo, cioè dei diritti di tutti sul diritto di ciascuno. Temendo l’isolamento si è adeguata al “dirittismo” dominante coniugandolo a modo suo, e cioè a favore degli ultimi e dei più fragili, ma non potrà non riconoscere che accanto a loro esiste la necessità e perfino la prevalenza dei diritti degli “altri”, cioè del clima relazionale generale che vediamo ogni giorno più compromesso.
Chi darà voce e difenderà questa esigenza diffusa, oggi impalpabile ma che permea tutte le persone ragionevoli? Dovrebbe essere sia compito della Chiesa, come comunità carismatica e istituzionale, sia dello Stato, sia di tutte le sue realtà sociali. Per ora tutti questi soggetti sembrano tacere.
L’impianto teorico ancora dominante rifugge da queste considerazioni sia culturali che organizzative. Si sta riproponendo una diatriba insolubile tra libertà senza limiti — oggi ancora dominante — ed autoritarismo crescente. Diatriba che fotografa la situazione ma la pietrifica.
Dobbiamo soffrire ancora molto per cambiare decisamente e consapevolmente rotta.