Giada aveva 26 anni e aveva davanti la vita. Il senso di vergogna perché gli esami che dovevano portarla alla laurea non c’erano davvero nel suo libretto, ha innescato un senso di vergogna che l’ha schiacciata e, ieri, Giada si è tolta la vita gettandosi dal tetto della sua Università, a Napoli. Essendo fuori sede, per quei quattro, cinque anni era stato facile inventare scuse, costruirsi una realtà diversa e così non aveva sostenuto gli esami. Non ha avuto il coraggio di sostenere la verità. Non è qualcosa di così raro: ne parlavo con degli amici e ciascuno di loro, con dolore, a mezze parole, ha tirato fuori un parente, un amico, a cui era accaduto qualcosa di simile.
Ieri, Giada, come il protagonista del Fu Mattia Pascal, si era resa conto che diventare un’altra persona equivaleva a morire perché la verità della sua vita vera era diventato un macigno insopportabile da portare.
Non ha più potuto vivere perché vivere la nostra vita è l’unico requisito per esistere sul serio: se sei un vaso, rimani vaso. Studiare — come ha scritto il professor Guido Saraceni — è seguire la propria intima vocazione, è far contenti se stessi, non gli altri. E qui però molte colpe sono anche della nostra società, fatta solo per vincenti, e di un’università intesa troppo spesso come una gara dove è lecito anche scendere a compromessi e barare, visto che vincere è tutto: ne va della vita e, se non vinci, ne va dell’onore, del prestigio, dell’orgoglio.
Però andiamoci piano a cadere nella sociologia e nella psicologia all’amatriciana, perché il problema viene da lontano. E penso ad Erode che, pur di non sfigurare coi suoi amici, mente a se stesso, tradisce un’amicizia e fa uccidere Giovanni il Battista. Dal peccato originale in poi, da quando Dio rivestì Adamo ed Eva di tuniche di pelli all’uscita del paradiso terrestre, la paura di mostrarci nudi, autentici, è la ferita che maggiormente piaga le nostre vite. Abbiamo bisogno di ripartire dall’essere quello che siamo ma per questo abbiamo bisogno di essere in casa, di una casa. In fin dei conti la conversione di cui abbiamo bisogno è quella di tornare di continuo alla casa del Padre come il Figliol prodigo. Giada ha avuto terrore di questo. Ha avuto paura della sua casa. Dei suoi genitori, del suo fidanzato, del riconoscimento che temeva non avvenisse più. In fondo, ogni santità, ogni conversione, è quella di una vita che riconosce se stessa e come tale viene anche riconosciuta: questo vuol dire il ritorno a casa, quello che non è potuto avvenire per Giada.
Andiamo oltre la sociologia e la psicologia per arrivare all’umiltà della verità che è sempre feconda. Come diceva Fabrizio de André, “dai diamanti non nasce niente, ma dal letame nascono i fiori”. Quante volte faremmo meglio a confrontarci col letame che è in tutte le nostre vite per essere noi stessi e, così, arrivare a portare frutto: un frutto che non deve essere per forza quello di una laurea. La morte di questa ragazza può essere per noi l’occasione di riscoprire l’importanza di essere se stessi. Perché puoi vivere fuori sede ma non esistere fuori sede. Non puoi vivere fuori da te stesso, dalla tua vita, dalle relazioni con i tuoi, con casa tua.