Veramente una domanda cruciale quella che pone Susanna Tamaro nel suo intervento comparso sul Corriere della Sera lo scorso 12 aprile (cfr. “I ragazzi selvaggi e il tramonto dell’educazione”): cosa sia l’educazione e quale sia la relazione tra l’educazione e il nostro essere pienamente umani.
Lo spunto prende le mosse da un clima non certo favorevole al mondo della scuola: ci si chiede infatti se essa possa ancora considerarsi, insieme alla famiglia, l’ambito educativo privilegiato: con sempre maggior frequenza assistiamo al ripetersi di attacchi e rivalse di genitori imbufaliti per il trattamento riservato da maestri e professori alla supposta dignità dei loro figli, richiamati all’ordine per comportamenti inaccettabili; da non trascurare poi episodi gravi di bullismo, amplificati dalla Rete e destinati ad alimentare un clima generale di polemica e disagio.
È proprio di fronte a questa “catastrofe educativa”, tale la definisce Susanna Tamaro, che si colloca dunque la domanda in merito all’educazione e alla sorte nefanda che l’imminente futuro potrà riservarle.
Non depone sicuramente a favore della specie umana il paragone, introdotto dall’autrice, con le scimmie antropomorfe il cui comportamento sarebbe — secondo la Tamaro — ben più coerente e responsabile di quanto non avvenga appunto tra gli uomini, dotati ahimè, a differenza delle bestie, dell’uso “ingombrante” della libertà!
A seguire il riferimento, quasi inevitabile, alla tesi dell’illuminista Rousseau e al suo Émile, il bambino lasciato allo stato di natura secondo il falso presupposto che, per natura, l’uomo sia buono. A questo proposito la Tamaro introduce due significative citazioni di riferimento: il libro I diseredati, ovvero l’urgenza di trasmettere, del filosofo Bellamy (ed. Itaca 2016) e il film di Truffaut Il ragazzo selvaggio. A tema, in entrambi, la crisi educativa e ancora una volta il destino del povero Émile: a vent’anni dalla morte di Rousseau, il bambino, ormai cresciuto, era rimasto però “selvaggio” e non — si badi bene — perché fosse un soggetto indomabile, come alcuni seguaci di Rousseau si ostinavano a sostenere, quanto piuttosto per i gravi danni psicologici causatigli da una crescita in totale abbandono e solitudine.
La Tamaro a questo punto rincara la dose volendo dimostrare come, ad essere “diseredata”, sia proprio la nostra società dalla quale sarebbero state “abolite” le realtà educative finora in capo alla collettività; nell’ordine: la scuola, la famiglia, i partiti, la chiesa. Ad assolvere dunque il compito educativo sarebbe rimasta soltanto la Rete, con il suo “narcisismo anarchico” e la sua promessa menzognera di felicità individuale.
Così anche nell’ultima colonna del paginone, prevalgono denunce e invettive senza che mai venga evasa la provocazione iniziale circa l’educazione e il suo imprescindibile nesso con il nostro essere “pienamente umani”.
Giustamente si fa appello alla totale assenza di autorevolezza, alla triste latitanza della cultura come realizzazione dell’umano e della sua trasmissione; e tuttavia neppure una parola sul “come” tutto ciò potrebbe nuovamente albergare presso una società “diseredata” e, aggiungo io — dopo aver letto la Tamaro — anche… disperata!
In un recente dialogo promosso dal Centro culturale di Milano, Javier Prades, rettore della Facoltà di Teologia San Dámaso di Madrid, ha detto tra l’altro che per ricostruire reali spazi di convivenza, la sfida passa da un compito paziente di testimonianza dell’esperienza umana: solo vedendo in atto valori condivisi, ci sarà nuovamente possibile riconoscerli.
Se la sfida riguarda dunque, ancora una volta, l’educazione, si tratterà di reperire e indicare fatti che, nel presente, documentino l’esistenza di soggetti veramente in grado di educare: restituire fiducia ad una società sempre più incapace di immaginare un futuro positivo, è parte di quella responsabilità che ciascuno può e deve assumersi per ridestare nei giovani un fascino e un interesse che in molti di loro si è spento forse proprio sul nascere.
Racconterò in proposito un episodio breve, ma significativo: un’amica che insegna in un Itis milanese, è stata invitata — prima del suo ricovero in ospedale dove avrebbe dovuto subire un intervento — a una pizzata con la classe. Durante la cena, uno dei suoi alunni le ha detto pubblicamente: “Lo sa, prof, che io a scuola la guardo sempre muoversi, e non solo quando fa lezione con noi. Ci ho riflettuto e ho pensato che, se a casa il punto di riferimento è mio padre, a scuola questo punto di riferimento è lei, ma non solo per me! Lei, a scuola è un punto di riferimento per tanti di noi”.
Ecco descritta, nelle poche battute di questo dialogo, la forza di un “io” capace di incontrare, di un soggetto che decide di porsi e, come tale, accende un desiderio, suggerisce un’ipotesi, invita ad un percorso. E come lo fa? Senza imporre regole o fissare paletti, ma semplicemente con il suo “esserci”, con quell’energia che sola può scaturire dalla forza di un’appartenenza.
Forse è proprio questa la strada intrapresa da Papa Francesco nel convocare il Sinodo su “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale” in programma per il prossimo ottobre: mettersi in ascolto delle domande e delle inquietudini dei giovani, nel tentativo di accompagnarli nel cammino della vita.
Non sarà dunque il bastone del maestro zen citato dalla Tamaro a farci riconquistare l’autorevolezza smarrita, ma piuttosto l’audacia di quanti sono disposti ad accettare la sfida disarmata di un percorso amoroso, da vivere insieme a tutti quei “selvaggi” incontrati lungo il cammino.