1° gennaio 2018, 9 milioni di studenti fra i 3 e i 18 anni; 1° gennaio 2028, 8 milioni: un milione di studenti in meno, ecco cosa succederà fra dieci anni secondo un approfondimento che la Fondazione Agnelli ha pubblicato pochi giorni fa, e che è stato immediatamente ripreso dai media, social e non.
Nel 2028 la natalità italiana sarà la più bassa d’Europa; con un indice di base 100, il nostro paese si attesterà a 85/100 mentre la Svezia sarà in cima alla classifica con 125/100, un saldo ampiamente positivo a fronte di uno decisamente negativo per il nostro paese. Un inverno demografico che non è certo una novità per l’Italia, la cui unica misura a favore della natalità è stata un bonus bebè persino ridotto recentemente nella sua estensione, e nessuna revisione della durata della maternità obbligatoria, quella a stipendio sostanzialmente pieno per la mamma lavoratrice, estendibile al massimo ai quattro mesi del bambino, e seguita da un periodo a salario decurtato nel caso la mamma scelga di accudire personalmente il figlio o figlia estendibile, più o meno, fino ad un anno del bimbo. Restano dai due ai cinque anni, a seconda che si mandi il piccolo alla scuola dell’infanzia, scelta ormai quasi universale: in questi anni le uniche risorse gratuite sono i nonni, ove presenti. Dopo di che si entra nel tema delicato della “non scelta” di un percorso educativo, a costo zero solo se si sceglie una scuola statale e solo fino all’ingresso nel mondo universitario.
Per lo Stato italiano il figlio è tuo e te lo gestisci tu: ben diversa la scelta del governo svedese che, affrontando il suo inverno demografico già nel 1999, si segnalò per un sistema di welfare che comprendeva 480 giorni di congedo parentale pagati a salario normale, permessi retribuiti per malattie figli fino a 12 anni, e fino a 120 giorni, scuola gratuito fino a 19 anni, mensa compresa, e anche un bonus che potremmo dire “adolescente”, in quanto rappresentato da un assegno mensile di 100 euro minimo fino all’età di 16 anni. Per lo Stato svedese, il figlio è nostro e ce lo tiriamo grande assieme. Il risultato, già nel 2011, fu di riportare la natalità in Svezia a due figli, giungendo oggi a primeggiare nella classifica delle nazioni europee.
La Fondazione Agnelli ha il merito innegabile di aver affrontato il tema della denatalità legandolo, come è sua mission, al tema dell’educazione, e annunciando la perdita di circa 37mila classi in dieci anni, e di 55mila docenti, nonché un risparmio per le casse dello Stato di circa due miliardi di euro. Ma non si tratta certo di un grido di allarme, a meno che non si intenda con ciò la perdita di cattedre, le difficoltà per le richieste di trasferimento da Sud a Nord (visto che il calo di studenti riguarderà tutte le regioni) e il blocco del turnover degli insegnanti. Quest’ultimo aspetto, sottolinea Gavosto, direttore della Fondazione, avrà probabilmente ricadute negative sulla qualità dell’insegnamento andando ad incidere sulla “capacità di innovazione didattica dell’intero sistema di istruzione”.
Cosa si intenda con questa “capacità” è desumibile dalle proposte fatte sempre da Gavosto che, escludendo l’ipotesi del risparmio per il bilancio dello Stato (le cattedre saranno perse, ma non i docenti, tutti da ricollocare) propone sia la riduzione del numero medio degli studenti per classe sia l’aumento medio degli insegnanti per classe, oppure il loro utilizzo al pomeriggio, per una scuola di tempo pieno ed inclusiva che affronti disagi e dispersione.
Sopratutto l’aumento del tempo scuola, legato alla disponibilità forzata di docenti perdenti classi, sembra essere la soluzione più caldeggiata, e che non appare poi così dissimile dal “potenziamento” inserito nella “Buona Scuola” per consentire l’assorbimento in ruolo di una quota di docenti più o meno doppia di quella che, fra dieci anni, avrà un posto di lavoro assicurato, ma non delle classi.
Cosa potrà significare tutto questo? Forse docenti che non insegneranno più quanto avranno studiato, trasformati sempre più in erogatori di progetti contro dispersione ed abbandono scolastico, e ciò per costrizione, e non per scelta? Una classe di docenti del mattino, immutabile nella trasmissione di un sapere sclerotizzato, vista l’avanzata dell’età, e una classe di docenti del pomeriggio, di fatto privi di identità professionale? Il tutto in un contesto più volte emerso di degrado del tessuto scolastico, ormai non più soltanto segnato da dispersione ed abbandoni, ma da violenza fisica e verbale — queste sì vero allarme — verso i docenti da parte di studenti e talvolta genitori? Un incremento del tempo scuola può davvero intercettare positivamente questo malessere, e davvero 24 Cfu obbligatori in scienze antropologiche e pedagogico-didattiche potranno arricchire il bagaglio professionale dei nuovi docenti del Fit, gli stessi che, stando le cose come la Fondazione prospetta, entreranno nella scuola in numeri sempre più bassi, fino a non potervi entrare affatto?
Trasformare un fattore di crisi in un’occasione di sviluppo è certamente la ricetta vincente sia per il singolo che per la collettività, ma colpisce che la Fondazione Agnelli, il cui scopo da 50 anni è analizzare imparzialmente la realtà del mondo della scuola al fine di un miglioramento della qualità dell’istruzione, non spenda l’autorevolezza della propria indagine per sottolineare l’importanza di politiche, prima che strettamente scolastiche, sociali, volte ad incrementare la natalità, sopratutto considerando che tali politiche non sono certo a breve termine e neanche, in sé, sicure.
Dopo aver speso 60 miliardi in politiche a favore della natalità, in Francia nel 2017 il numero dei figli per donna è di nuovo sceso sotto quota due, il minimo per garantire un andamento demografico sano, pur restando la Francia con un indice ancora attivo. La scelta francese di reindirizzare le politiche pro natalità nel senso di una maggiore selettività e conseguente risparmio di risorse è sicuramente opportuna a breve termine, ma la parziale inefficacia delle misure economiche potrebbe, o forse dovrebbe, avviare qui, in Italia, a livello politico, e quindi anche di future politiche scolastiche, una riflessione sulla dimensione culturale della denatalità. Senza una cultura della vita l’Italia svanirà.
Per la scuola, una cultura della vita ha a che fare con una visione non generalista e non neutrale della proposta educativa, che rifiuti anche, sulla base dei risultati di sistema che ha generato, quella cultura dell’homo economicus che ha fatto del Novecento il “secolo della scuola”, in quanto la scuola è divenuta nel secolo scorso il diritto di tutti, passo necessario per la creazione di quella cultura di massa che è al servizio dell’economia e del profitto di pochi sui consumi di molti, se possibile di tutti.
Nel XXI secolo la scuola rischia di dissolversi e di resistere solo con “misure compensative”, volte solo a mantenere chi la scuola la dovrebbe servire, i docenti e gli amministratori della scuola anziché gli studenti.
E’ urgente che la scuola, anche nei suoi apparati istituzionali, e lo Stato, nella individuazione delle politiche scolastiche future, chieda l’aiuto del pensiero dei grandi educatori del Novecento, quali don Bosco, don Milani, e don Giussani, tutti appartenenti alla tradizione cattolica, realmente incentrata su quella valorizzazione della persona umana che prescinde dal suo valore economico.