In che modo ascoltare la realtà dei giovani? Tanti oggi si pongono questa domanda.

Se lo chiede il Miur, che continua a stanziare fondi per la lotta alla dispersione scolastica, che nel nostro Paese non accenna a diminuire in modo significativo. Siamo al 13,8% su scala nazionale e faremo fatica a cogliere l’obiettivo del 10% indicato dall’Europa per l’anno 2020.



Se lo chiedono i demografi e gli statistici dell’Istituto Toniolo (leggi Università Cattolica) di Milano, che da alcuni anni elaborano indagini sulla condizione giovanile. Il Rapporto giovani 2018 realizzato su un campione rappresentativo di 2.225 soggetti tra i 20 e i 25 anni riferisce di persone meno individualiste di come spesso vengono raccontate e desiderose di farsi parte attiva del Paese, nonostante le difficoltà della fase attuale e la sfiducia nella politica (il 53% la boccia, ma il 74% è disposto a migliorarla con un impegno personale).



Se lo chiedono scrittori, ricercatori e commentatori politici, che ci giocano un po’ a ripetere come un mantra che il nostro “non è un paese per giovani”.

Se lo chiede la Chiesa italiana, che dedicherà il prossimo Sinodo dei Vescovi (ottobre 2018) alla relazione tra i giovani e la fede. In vista dell’appuntamento è stato stilato, da oltre 300 ragazzi convenuti a Roma per alcuni giorni da tutto il mondo, un disincantato documento finale, rifluito poi in un più tranquillizzante documento preparatorio. Nel testo dei 300 si può leggere, tra l’altro, che “in molti luoghi esiste un ampio divario fra i desideri dei giovani e la loro capacità di prendere decisioni a lungo termine”.



Questo è il punto che interpella ogni giorno chi nella scuola, nelle famiglie, nella società si trova ad affrontare il compito dell’educazione: qual è l’origine di questo drammatico divario? Da quali fattori è determinata la condizione esistenziale di chi oggi attraversa le fasi dell’adolescenza e della giovinezza?

I giovani, intendendo in questo caso gli adolescenti in età scolare, bisogna anzitutto guardarli. Sì, certo, piegati sui loro cellulari connessi alla rete, impegnati a chattare, diffidenti della scuola e degli adulti che li vogliono catturare e imporre loro delle regole. Sono espressione dell’attuale melting pot culturale, italiani per nascita, italiani acquisiti o in attesa di cittadinanza, con o senza una famiglia tradizionale alle spalle. Occorre guardarli nel loro essere o sentirsi in qualche modo feriti.

Il documento pre-sinodale preparato dai giovani ha un altro passaggio in cui si legge che “l’esclusione sociale è un fattore che contribuisce alla perdita di autostima e di identità sperimentata da molti; in Medio Oriente, molti giovani si sentono obbligati a convertirsi ad altre religioni al fine di essere accettati dai loro coetanei e dalla cultura dominante che li circonda”. Nel mondo, non lontano da noi, ci sono giovani e adolescenti le cui ferite possiamo leggere sulla loro pelle e negli occhi. Basta scorrere le pagine di un giornale.

Qui nel nostro Bel Paese le ferite sono prodotte da un altro meccanismo, da un bombardamento interiore. Si parlava qualche tempo fa di un “effetto Chernobyl” sui giovani: esteriormente l’organismo è normale, ma la mentalità dominante ha operato un plagio fisiologico, è come se non ci fosse più alcuna evidenza reale. Non pare che questo effetto si sia rimarginato, tutt’altro. Semmai la mentalità dominante passa attraverso il cellulare, con il quale, chattando, si è insieme al gruppo, ma su un’isola separata dal resto. A differenza di qualche anno addietro, il mercato della comunicazione propone ai giovani e giovanissimi soluzioni, scelte di vita e prospettive culturali che sembrano allontanarli ancora di più da quel senso della realtà totale di cui non si ha più evidenza. E tuttavia questo significato ultimo del reale si può presentare sotto diverse facce.

Qui si inserisce nuovamente il tema dell’ascolto e della trasmissione della conoscenza da una generazione all’altra, dai padri ai figli. Sicuramente, lo si avverte nella scuola e nella società, i giovani non desiderano essere commiserati, tanto meno essere ingannati dalle promesse che provengono dal mondo adulto (politica, scuola, famiglia). Da questo punto di vista, cioè da quello delle “istituzioni”, se il tentativo di dialogo con il mondo giovanile avviene sulla base di un richiamo a certi valori etici o a modelli conoscitivi standardizzati da una pratica scolastica ripetitiva, l’azione va incontro a sicuro fallimento (“Tanti giovani, avendo perso fiducia nelle istituzioni, non si riconoscono più nelle religioni tradizionali e non si definirebbero come religiosi”). Un tempo forse si ambiva diventare adulti, nel senso di essere “come” gli adulti. Oggi si respira tra i ragazzi un’altra aria. Intendono fare il loro percorso e chiedono che si facciano i conti anzitutto con le loro ferite, con le loro storie. Con il mondo adulto è aperto un combattimento, dove tra i due non vince chi è più forte o più furbo, bensì chi è paziente a tal punto da comprendere in sé anche la rabbia dell’altro.

Questo è il compito dell’educazione oggi. Le sconfitte sul terreno dell’umano si rimarginano non rinunciando al dono dell’umanità, bensì riconoscendo che l’umanità è anzitutto una questione di dipendenza da qualcosa o qualcuno che è più grande. È sul terreno dell’umano che scuola, Chiesa e famiglia giocano la loro ultima sfida. E se per qualche intellettuale di passaggio l’umano è troppo poco al confronto della scienza pedagogica o della didattica che analizza i processi e fornisce risposte asettiche, bisogna pur ricordare che il mondo rifiorisce tutte le volte che qualche essere umano dà la propria vita per l’altro.

Auguriamoci che testimonianze di questo genere, che ci sono, diventino sempre più il buon lievito di una società nuova di giovani e per i giovani.