“Devi capire che la vita è fatica”. Ha risposto così un amico alla figlia quindicenne quando gli ha confidato in lacrime che voleva cambiare scuola perché la matematica e il latino sono materie ostiche e non riesce a stare al passo. Invece, un’amica, mamma di una bambina di otto anni, si è detta soddisfatta per il fatto che alla figlia vengano imposte regola, disciplina e tanta fatica. Il fatto che la bimba sia annoiata e perda progressivamente gusto ad andare a scuola, non pare impensierirla.



Sarebbe interessante approfondire perché nel sentire comune è così diffusa l’idea che il piacere non porti a nulla, mentre lo sforzo e l’imposizione siano l’unica strada che dia risultati, a scuola come nella vita.

Eppure, grandi educatori come don Lorenzo Milani, già negli anni Cinquanta, avevano chiaro che “nutre la mente solo ciò che la rallegra”, come disse Sant’Agostino. E ora anche le neuroscienze, e addirittura alcuni studi realizzati da economisti, hanno messo in luce il fatto che dimensioni emotive come l'”amicalità”, l’empatia, la fiducia hanno un impatto decisivo sull’apprendimento. 



C’è un ex ministro dell’Istruzione, Luigi Berlinguer, che si sta dedicando anima e corpo per cercare di cambiare l’idea di “scuola” come “pedaggio da pagare” e per far riflettere sul fatto che invece “la scuola è vita” a tutto tondo e che tradisce la sua natura e fallisce il suo scopo quando lascia che dominino l’obbligo e il dovere. 

Dopo una lunga esperienza nell’accademia e nella politica, Berlinguer ora gira l’Italia per spiegare che una scuola che “porta avanti tutti senza regalare niente” è quella che educa anche l’emisfero destro del cervello, non solo il sinistro. Non solo la logica e la ragione, ma anche le emozioni, l’attrazione, la curiosità, la gioia. 



Perché si diffida tanto di queste qualità?

Berlinguer guarda alle implicazioni sociali di questa diffidenza. La scuola del passato, in gran parte ancora presente, ha svolto una funzione: creare un’élite che comandasse e lasciare gli altri “a zappare”. E’ la stessa scuola che “ha sancito che la creatività artistica, la passione, l’immaginazione non sono cultura scolastica”. Ora è il tempo — secondo il professore ed ex parlamentare del Pci — in cui le differenze biologiche, psicologiche, culturali non si trasformino più in differenze sociali.

Il punto però non è solo avvantaggiarsi di dimensioni non cognitive della personalità per rinforzare la capacità di conoscere, ma considerare il ragazzo “unito”, tenere insieme “mente e mano” perché anche il fare sia “intelligente e colto” e il pensare sia davvero vivo, ad esempio “portando a scuola” gli interessi degli studenti, ciò che meglio esprime la loro soggettività e la loro energia.

La scuola non deve regalare niente, ma decidersi finalmente ad accettare la sfida di “trasformare la fatica dell’apprendere in piacere”. E’ possibile, secondo Berlinguer, rendere anche un’equazione di secondo grado qualcosa di piacevole da risolvere.

Questo è quanto, in sintesi, ha detto l’ex ministro lo scorso fine settimana a Sassari, alla due giorni “Una rete per l’educazione”, un’iniziativa che ha riunito il mondo della scuola (docenti, alunni, dirigenti scolastici, esperti, assessori) per fare il punto, per capire e condividere i passi che la scuola è chiamata a fare di fronte al mondo che cambia.

La Sardegna, da questo punto di vista, è un osservatorio interessante. Terra di grandi problemi, ma anche di grandi risorse creative. E per questo può essere un laboratorio in cui sperimentare soluzioni nuove a problemi vecchi. I problemi che attanagliano la scuola sarda sono noti, come ha evidenziato Paola Appeddu, anima dell’iniziativa: la bassa qualità, l’aumento dei ragazzi con difficoltà, l’abbandono scolastico (per quanto quest’ultimo dato è in lieve diminuzione) che portano l’isola al fondo delle classifiche nazionali, insieme al resto del Mezzogiorno.

In questo contesto però ci sono anche esperienze di grande valore, ben rappresentate dalla rete dei promotori della due giorni: una cooperativa sociale (la “San Camillo de Lellis”) che si occupa di educazione, una scuola per l’infanzia (la “Marta Mameli”) e un centro di aiuto allo studio (“Gli improbabili”), cuore di una realtà educativa che coinvolge scuole pubbliche e private e che nella città di Sassari è un punto di riferimento per molte famiglie. Persone che si incontrano intorno alla grande opera dell’educare e formano così una vera e propria comunità. 

“Comunità” è esattamente ciò che dovrebbe essere una scuola, secondo Susanna Mantovani, una delle più stimate pedagogiste italiane, intervenuta anche lei alla due giorni. “Comunità reali”, le ha chiamate, luoghi in cui non si pensi agli alunni come qualcuno da “sollecitare”, ma come persone da riconoscere nella loro unicità e solo poi da portare a un lavoro comune.

In una comunità-scuola — sempre secondo la Mantovani — viene rafforzata la coscienza e la cura di sé, si propongono esperienze significative, si vivono relazioni che non sono il mero “vogliamoci bene”, ma scambi in cui tutti sono aiutati a fare un passo avanti nella lettura della realtà. 

Ma una comunità può essere un luogo soffocante se sacrifica l’apertura e il pluralismo all’appartenenza e se sacrifica la realizzazione del progetto personale del ragazzo alla “copertura del programma ministeriale”. Insomma, una comunità-scuola “non è un esercito, ma un’orchestra”.

I tanti ragazzi delle superiori presenti al convegno hanno mostrato di apprezzare. Soprattutto il tentativo appassionato dei relatori di coprire quella distanza sempre più accentuata tra generazioni e di prospettare una scuola in cui possano osare di più nel “metterci del loro”, scoprire di più se stessi ed essere accompagnati nella ricerca del loro personale percorso. Un orizzonte ben diverso dalla fatica.