Si moltiplicano gli studiosi e i centri di ricerca impegnati a indagare quale potrebbe essere la scuola dei prossimi decenni. Il dibattito in corso sembra concorde soltanto su due punti.
Il primo è la convinzione che si tratterà di “un’altra scuola” rispetto a quella che conosciamo, non solo per la necessaria maggiore familiarità con le tecnologie, ma anche per l’esigenza di assicurare persone capaci di vivere un rapporto dinamico, critico e flessibile rispetto al mutare repentino delle condizioni di vita. Il confronto è naturalmente aperto, poi, sulle modalità con cui conseguire questo obiettivo. Come è noto alcuni sono convinti che la via principale debba essere quella intrapresa dalla scuola delle competenze, altri ritengono invece che, senza escludere un buon rapporto tra sapere e saper fare, sia prioritario sviluppare quelle disposizioni comportamentali che rientrano nella categoria delle soft skills (coscienziosità, socialità, apertura mentale, ecc.).
Il secondo punto riguarda la capacità educativa degli adulti impegnati nelle attività scolastiche (e non solo, se, come è prevedibile, l’area della formazione giovanile oltrepasserà le mura delle aule). La scuola di domani avrà bisogno, come la scuola di oggi, di “adulti significativi”, capaci di veicolare non solo in modo professionalmente efficace, ma anche in forme sapientemente educative cultura, competenze, spirito di riflessione, stili di vita buona. I giovani non vogliono saperne di prediche, ma accettano (ed hanno bisogno) esempi con cui confrontarsi. Anche in questo caso le opinioni manifestano sfumature diverse. Accanto a chi ritiene che non si debba esagerare con l’esaltazione delle virtù etiche — con un alto rischio di inquinamenti moralistici, volontaristici e buonisti (e perciò a rischio di alta opinabilità) — stanno quanti sono invece convinti che occorra coraggiosamente rilanciare la prospettiva che fare il docente non è un mestiere come gli altri, ma è una professione ad alta densità vocazionale.
Se si dà uno sguardo alle decisioni perseguite negli ultimi decenni è facile constatare come la questione della qualità dei docenti sia stata la Cenerentola della politica scolastica. Anziché puntare ad avere tra gli insegnanti i migliori laureati selezionati mediante tirocini impegnativi e adeguatamente retribuiti, l’orientamento è andato in direzione del tutto diversa. I posti di insegnamento sono stati più o meno concepiti come una specie di ammortizzatore sociale e cioè una forma di assorbimento della disoccupazione intellettuale a bassa retribuzione. Insomma, poco ma a molti, senza andare troppo per il sottile.
Questa impostazione ha prodotto situazioni a dir poco paradossali. Ne ricorderò solo due. La prima è quella che si potrebbe definire degli “insegnanti per caso”. I provvedimenti contro il precariato previsti dalla cosiddetta Buona Scuola hanno immesso nei ruoli della scuola un certo numero (non marginale) di maestri diplomati e di laureati in varie discipline che a suo tempo si erano iscritti alle graduatorie scolastiche, dedicandosi tuttavia ad un’altra attività poi intrapresa a tempo pieno. Non è difficile immaginare con quale preparazione queste persone quasi miracolate, al di là della buona volontà dei singoli, si siano affacciate nelle aule scolastiche, sostenute soltanto dal lontano ricordo della loro frequenza scolastica.
Ma una non meno incresciosa realtà si è svolta sul versante della formazione iniziale. In meno di 20 anni si sono succeduti addirittura tre diverse tipologie di avviamento all’insegnamento. Alle scuole di specializzazione (Ssis) entrate a regime a fine secolo, hanno fatto seguito il Tirocinio formativo attivo (Tfa con la variante al ribasso dei Pas) creato al posto delle Ssis nel 2010 e poi, recentemente, il modello Formazione iniziale e tirocinio (Fit) del 2017. Come sia possibile dare stabilità al sistema (e certezze ai giovani interessati all’insegnamento) modificando per tre volte l’impianto della formazione iniziale è uno dei tanti misteri scolastici difficili da sciogliere.
Nella transizione da un sistema all’altro, si sono create di volta in volta vaste sacche di aspiranti docenti in attesa della nuova normativa che le università hanno dovuto a posteriori frettolosamente sanare con appositi corsi (economicamente costosi), ma non si sa anche quanto utili. Un’ennesima “sanatoria” messa in campo, addirittura precedente o coincidente con l’inizio della carriera.
Qualcosa all’orizzonte sembra tuttavia stia fortunatamente mutando. Alcuni segnali, per quanto ancora molto timidi, stanno infatti richiamando la centralità della formazione dei docenti, puntando decisamente sulla loro qualità. Sta emergendo la convinzione (semplice, ma smarrita per tanti anni) che per quanto la scuola del futuro possa essere “altra” se confrontata con l’attuale, saranno sempre i docenti a farla più o meno buona.
Questa esigenza viene sottolineata, per esempio, in un recente libro della Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo di Torino (Leardership per l’innovazione della scuola, Il Mulino, pp. 276) curato dall’ex ministro dell’Istruzione Francesco Profumo. Nell’interrogarsi su quali leve strategiche sia necessario far conto per la scuola del futuro, il volume individua tra i “temi focali” — accanto alle tecnologie digitali — proprio la formazione in ingresso e in servizio e la valutazione e il monitoraggio della formazione stessa. Gli autori del libro ritengono infatti prioritaria l’attenzione verso lo sviluppo professionale dei docenti, associando ad essi la grande responsabilità per garantire quella “scuola del cambiamento” indispensabile per il futuro. Non mancano indicazioni anche molto precise al riguardo: il buon funzionamento dei corsi Fit, la valorizzazione delle potenzialità del Piano nazionale di formazione e il monitoraggio dei programmi di formazione dei docenti.
Altri segnali provengono da studiosi e ambienti di quella sinistra politica e sindacale che per decenni non si è particolarmente distinta, in concorso con significative quote del clientelismo politico, nell’impegno a tenere alto e qualificato il profilo professionale dei docenti. Se si tiene conto che questi settori sindacali spesso si sono anche messi di traverso su qualsiasi tentativo, anche solo sperimentale (penso al progetto “Valorizza”) per ripristinare logiche meritocratiche, appare interessante leggere che “occorre impegnarsi per ricostruire l’unità della professione degli insegnanti” e che questo obiettivo vada perseguito nel recupero di quegli gli elementi del “canone educativo occidentale che sta soccombendo sotto il maglio della globalizzazione” e cioè nell’orizzonte pedagogico più che dello specialismo professionale. Meglio tardi che mai. Sempre che alla sottile nostalgia del passato e alla critica (condivisibile) delle logiche “del mercato” seguano azioni conseguenti.