“L’educazione deve passare dalla libertà dell’allievo, questo favorisce la sua creatività innata. L’assecondare il proprio istinto porta all’interesse autentico e alla disciplina”. Questa è la didascalia alla foto di Maria Montessori, “capostipite della pedagogia moderna”, che illustra il recente intervento (già commentato su queste pagine) di Susanna Tamaro sul Corriere della Sera e che può fuorviare il lettore, lasciandogli pensare che la colpa “del tramonto dell’educazione” sia tutta sua. Sono associate parole come libertà, creatività, interesse e istinto, che poco sembrano aver a che fare con la disciplina, ma che nel pensiero montessoriano hanno un senso peculiare. In effetti, per la Montessori l’istinto del bambino è un istinto che lo spinge a lavorare e la libertà va di pari passo con l’ordine presente nell’ambiente, preparato accuratamente dall’adulto e dove le regole, poche, vanno seguite da tutti per consentire ad ognuno di lavorare nella concentrazione.



Ma forse il pericolo maggiore risiede nell’interpretazione errata della centralità del bambino. Nel mondo francofono è comune da alcuni decenni dire che l’insegnante deve solo “facilitare”, e non più insegnare, per rispettare la spontaneità del bambino. Nelle classi Montessori, oltre che preparare l’ambiente e sostenere lo sforzo dei bambini, l’insegnante trasmette anche il sapere, il patrimonio della nostra cultura, ma lo fa in un modo peculiare. Consideriamo ad esempio la “lezione dei tre tempi” che ella prese da Séguin: è l’insegnante che dà il nome delle cose e nomina i concetti, ed è giusto che sia così. Il bambino non è affatto lasciato da solo a vagare nell’ambiente, per inventare e creare il sapere che l’adulto non avrebbe il diritto di indicargli per non ledere la sua libertà né creare alienazione e che potrebbe solo scoprire insieme a lui.  



Queste sono invece le idee propagate dall’ideologia del pédagogisme in Francia fin dalla fine degli anni 60. Maria Montessori si rifiutò di aderire al movimento dell’Educazione Nuova perché vedeva bene le derive di questa corrente: per lasciare il bambino costruire il sapere che lo interessa, l’adulto non gioca più alcun ruolo e deve far di tutto per evitare la stanchezza dei suoi alunni. In Formazione dell’uomo (1950) la Montessori scriveva: “Le nuove scuole cercarono di eliminare, e a poco a poco ottennero che fossero eliminati nei programmi molti studi non necessari, come la geometria, la grammatica, molta matematica ecc., sostituendovi giuochi e vita all’aria aperta” (p. 30). La realtà delle scuole montessoriane è ben diversa. Viene proposto ai bambini un arricchimento della cultura che non provoca fatica perché esso risponde all’esigenza che hanno di superare sé stessi. Non si tratta di semplificare loro la vita, ma di sostenerli nel loro sviluppo affinché le loro potenzialità si trasformino in capacità e consentano loro di superare le sfide che dovranno affrontare.



Alcuni pedagogisti sono arrivati al punto di dire che la trasmissione è la più grande ingiustizia che vi sia, perché non rispetta la differenza tra i bambini. La “cultura” è diventata una parola proibita mentre la parola “imparare” viene sostituita da “appropriarsi del sapere”. Si dà per scontato che i bambini non vogliano imparare e che si debbano quindi trovare trucchetti per motivarli e svegliare il loro interesse. Un esempio: per fare scoprire la lettura ai bambini o ai giovani delle “zone di educazione prioritaria”, per anni Philippe Meirieu, autore di numerosi libri e formatore di insegnanti, chiese loro di non partire mai dai libri, ma dai libretti di istruzioni (del forno, della lavatrice…): sia perché erano utili per loro, sia perché così si rispetterebbe la loro provenienza sociale. È solo dopo quindici anni che riconobbe di essersi sbagliato, perché così facendo li si disprezzava e si faceva loro mancare una cultura essenziale. Nel frattempo però innumerevoli studenti hanno ingrossato le fila del 20 per cento di giovani francesi che escono della scuola senza sapere né leggere né scrivere, e in venti anni la proporzione dei giovani in grandissima difficoltà ortografica alla fine della scuola elementare è passata dal 26 al 46 per cento. O forse è più facile dire che la colpa è da attribuire all’ortografia francese che è difficile e che si rivela essere uno “strumento di esclusione”, ragione per la quale adesso tante regole sono state abolite?

Anche se ha scritto la prefazione al libro Maria Montessori Peut-on apprendre à être autonome?, Philippe Meirieu, come altri, ha preso da lei solo alcune idee più popolari, come la libera scelta del lavoro o l’autonomia, ma queste da sole non riescono a compensare una mancanza di fiducia nella persona e nella cultura e una visione della società dove tutto è considerato come una lotta.

Oltre che visitare una Casa dei Bambini per vedere quanta voglia di imparare e di lavorare lì abbiano i bambini, è anche opportuno che il pensiero di Maria Montessori sia studiato nella sua integralità, senza aver timore del cambiamento che esso rappresenta, dato che in oltre un secolo ha mostrato ottimi risultati e molte delle sue intuizioni ricavate da un’osservazione attenta dei bambini sono oggi per esempio confermate dalle neuroscienze.

Ma forse più che vantare i risultati ottenuti dalle scuole Montessori, è importante riscoprire la visione del bambino di Maria Montessori: questi più che un insieme di “competenze” è per lei il “Padre dell’uomo”. Il fatto che sia presa in considerazione la globalità della personalità umana e che non sia tralasciata l’opzione per lo spirito è una priorità da riscoprire con urgenza. E anche se l’educazione non impedisce all’uomo di essere disumano, non educarlo, cioè non farlo partecipare alla sua eredità che è la nostra cultura e non guardarlo nella sua totalità, gli può impedire di essere umano.