Seconda parte dell’articolo SCUOLA/ Presidi, le anomalie da correggere al più presto 

In secondo luogo, i capi d’istituto sono dirigenti di strutture estremamente complesse, “uffici” che possono contare anche più di duecento unità di personale: dimensioni inusitate per qualunque altra unità produttiva affidata alla direzione di un singolo individuo, tanto nel pubblico quanto nel privato. Si tratta inoltre di unità produttive le più lontane possibili da un qualsivoglia schema tayloristico in cui si possa delineare una rigida separazione tra una dirigenza che progetta le modalità di svolgimento del lavoro e una base che mette in pratica: la natura stessa del bene prodotto, infatti, impone un funzionamento scarsamente burocratico, nel senso che la gran parte del lavoro svolto dagli insegnanti, che a loro volta sono la grande maggioranza dei lavoratori sottoposti al dirigente scolastico, non si presta all’adozione di algoritmi produttivi rigidi, ma richiede al contrario di essere realizzato da figure ad elevata professionalità in condizioni di ampia autonomia (da non confondersi, ovviamente, con l’anarchia).



Se esiste una netta separazione formale e normativa tra il dirigente scolastico e tutti gli altri lavoratori della scuola, a lui gerarchicamente sottoposti, questa netta separazione nella costituzione materiale della scuola si stempera (fin quasi ad annullarsi) in una molteplicità di relazioni funzionali che si potrebbero rappresentare come una serie di cerchi concentrici: al centro appunto il dirigente, attorno al dirigente i docenti che con il dirigente condividono una relazione più stretta e meno asimmetrica, via via sfumando fino alle posizioni più distanti in cui si collocheranno gli insegnanti che intrattengono col dirigente relazioni meno “calde” e più asimmetriche. Il tessuto delle relazioni professionali tra dirigente e docenti, quindi, si sviluppa per una serie di gradazioni successive più che come una discontinuità netta.



La leadership del dirigente scolastico si comprende pertanto in maniera più compiuta quando la si analizza come processo sociale: per illuminarne il funzionamento occorre individuare i meccanismi di reciproca influenza, nell’ambito di un’interazione tra membri di un’unità organizzativa che partecipano — con forti margini di autonomia e professionale — di un processo comune. La leadership del dirigente scolastico non è pertanto la sola, bensì è una tra le molteplici leadership agite, in misura più o meno profonda e consapevole, da più membri del gruppo in funzione dei ruoli ricoperti, delle caratteristiche personali, e delle dinamiche di interazione che via via sia attivano.



Più che mai le scuole sono oggi, nel loro funzionamento quotidiano, agli antipodi di quanto il ministro dell’Istruzione pubblica di Napoleone III, Alfred de Falloux, avrebbe riferito a un visitatore straniero: “Sono le undici: in tutti i licei francesi, pubblici o privati, si commenta quel determinato passo di Tacito alla terza classe liceale”. Le scuole non sono macchine burocratiche in cui un centro, il dirigente, assegna mansioni, detta compiti e tempi, definisce protocolli e metodi di lavoro a un corpo di docenti-esecutori. È quindi impossibile parlare del dirigente scolastico senza fare i conti con l’autonomia professionale dei docenti e con le molteplici leadership diffuse della scuola, se non si vuole fare propria con grande ingenuità l’idea, povera di contatti con la realtà, di un dirigente scolastico che agisce come dominus indiscusso e indiscutibile collocato al di sopra e al di fuori della rete di complessità che costituisce in effetti la reale natura delle istituzioni scolastiche autonome.

Come si diceva in apertura, tuttavia, è dubbio che il dirigente scolastico delle scuole statali sia oggi messo in condizione di esercitare pienamente il suo compito, senza sottrarsi alle molteplici complessità con cui è costretto a misurarsi. Se si ritiene che sia necessario rendere più efficace l’azione dei capi d’istituto, le possibili linee di sviluppo sono (almeno) tre, variamente combinabili tra loro.

Una prima possibilità potrebbe essere quella di separare le responsabilità di gestione amministrativo-burocratica da quelle relative all’organizzazione didattica. Era questo l’esito già auspicato da Sabino Cassese nella sua (fondamentale) relazione alla Conferenza nazionale sulla scuola, organizzata nel 1990 dall’allora ministro della Pubblica istruzione Sergio Mattarella. Un possibile modello di riferimento potrebbe in questo caso essere rappresentato dalle scuole pubbliche paritarie, nelle quali la figura del coordinatore didattico e quella dell’amministratore sono di norma separate.

Una seconda possibilità andrebbe nella direzione di un rafforzamento dei poteri del dirigente scolastico, cui dovrebbe corrispondere un nuovo assetto degli organi collegiali e una ristrutturazione del rapporto di lavoro dei docenti e del personale Ata, a partire dalle modalità di matching tra istituzioni scolastiche e personale e da una riduzione dei limiti che condizionano l’esercizio delle prerogative datoriali del capo d’istituto. Si tratta di un mutamento in parte avviato con la legge 107/2015, ma che già nell’ultimo rinnovo contrattuale sembra aver trovato alcune non marginali limitazioni.

Una terza possibilità riguarderebbe infine il rafforzamento dei ruoli di middle management, ovvero delle figure di docenti incaricati di coadiuvare il dirigente scolastico nel governo della scuola. Anche in questo caso alcune innovazioni sono state introdotte dalla legge 107/2015, senza tuttavia andare a toccare l’aspetto fondamentale della carriera dei docenti.

Si tratta di tre prospettive non radicalmente alternative le une alle altre e, anzi, forse parzialmente conciliabili. Ci proponiamo di ritornarvi prossimamente.

(2 – continua)