Alessandro D’Avenia, a commento di una lettera ricevuta da una studentessa, la quale lamentava l’incapacità dei docenti di “cogliere l’individualità e la diversità degli adolescenti”, ha scritto sul Corriere il 26 marzo scorso: “…questa impetuosa lettera … mette il dito nella piaga della scuola: l’assenza di cura per l’unicità delle persone”.
Pochi giorni prima della comparsa di tale articolo, una docente raccontava del suo sconcerto di fronte a una madre che le ha chiesto per suo figlio un piano didattico personalizzato (Pdp) perché… infelice. L’infelicità, al pari della dislessia, come motivazione all’utilizzo di strumenti compensativi e dispensativi per l’apprendimento!
Due provocazioni che hanno suscitato in me alcune domande su termini quali unicità, individualità, personalizzazione, spesso utilizzati in campo educativo, in una scuola così inequivocabilmente sociale come quella italiana. In che cosa ultimamente consiste l’originalità della persona che un docente deve conoscere e rispettare per poter introdurre nella sua disciplina uno studente? Come tener conto dell’unicità degli studenti che partecipano alle lezioni, durante le quali non si può che fare una proposta unitaria alla classe? E ancora: davvero la risposta ai bisogni specifici di apprendimento di uno studente consiste nella redazione di un Pdp, cioè di un documento che stabilisce quali strategie attuare con lui, da quali compiti dispensarlo, quali strumenti permettergli di utilizzare differenziando così il suo percorso scolastico da quello dei suoi compagni?
Riflettevo su tali interrogativi, in dialogo con colleghi, docenti e specialisti, quando ho avuto l’occasione di sperimentare durante un’ora di lezione una possibile via di risposta.
In una terza media abbiamo letto e analizzato la seguente poesia — “M’è dato un corpo” — scritta da Osip Mandel’štam nel 1909, quando aveva poco più di diciott’anni:
M’è dato un corpo – che ne farò io
di questo dono così unico e mio?
Sommessa gioia di respirare, esistere:
a chi ne debbo essere grato? Ditemi.
Io sono giardiniere, e sono fiore;
nel mondo-carcere io non languo solo.
Già sui vetri dell’eternità è posato
il mio respiro, il caldo del mio fiato.
L’impronta lasceranno di un disegno,
e più non si saprà che mi appartiene.
Scoli via la fanghiglia dell’istante:
rimarrà il caro disegno, intatto.
(traduzione di Remo Faccani)
Imboccati dalla richiesta di individuare la presenza di antinomie nel testo, gli studenti hanno notato il contrapporsi dei concetti di dono e compito nel primo verso, cioè di un aspetto passivo e di uno attivo propri dell’esistenza, ripreso nelle immagini del fiore e del giardiniere; il passaggio, quasi altrettanto subitaneo tra la prima persona che chiude il primo verso (io), la terza (a chi) e la seconda plurale (ditemi: voi) chiamati in causa nel quarto. E infine l’antinomia tra istante e eternità, il disegno effimero prodotto dall’alito sul vetro che il poeta auspica rimanga intatto, per sempre.
Appellandomi alla loro esperienza, ho chiesto se tali contrapposizioni fossero reali o solo apparenti. Gli interventi degli studenti hanno messo in luce che i concetti individuati non sono antitetici nell’esperienza, possono coesistere: quando si riceve un dono, come una bicicletta o un cellulare, occorre averne cura. Ogni regalo ricevuto in fondo chiama in causa il destinatario nella sua responsabilità. L’io non è mai isolato: per imparare abbiamo bisogno dei genitori, dei docenti, dei compagni — come si stava rendendo evidente nell’avventura interpretativa del testo — e ancora, spesso capita di vivere istanti così intensi che si vorrebbe non finissero mai: un bel momento con un amico, la vittoria a una partita di calcio, un film avvincente, ecc. Si è così lavorato insieme per quasi due ore sul testo al fine di coglierne tutti i significati. Uno studente ha suggerito di utilizzare dei colori per evidenziare gli elementi che si contrapponevano, e un compagno daltonico ha replicato che però dovevano essere molto diversi tra loro, affinché anche per lui fosse evidente la differenza! Quasi al suono della campana ho posto loro un’ultima domanda: quale fosse secondo loro il filo rosso tra tali apparenti contrasti, cosa tenesse insieme l’io — gli altri, il dono — il compito, l’istante e l’eterno. Un po’ soprappensiero e sottovoce uno studente ha detto: “io ho ricevuto me stesso per consegnarmi all’eternità, e per far questo ho bisogno degli altri, non ce la posso fare da solo”. Un altro, invece, affaticato ma soddisfatto, mi ha semplicemente fatto vedere che aveva preso due pagine di appunti: è disgrafico ed è dispensato dal farlo secondo il suo Pdp. Una proposta, diverse risposte!
Tale lezione è stata un’occasione preziosa per comprendere alcuni aspetti della differenza tra individualizzazione e personalizzazione nella didattica: personalizzare significa innanzitutto mettere in moto la persona, affinché trovi le sue strategie per comprendere e apprendere. Certo, ognuno ha la sua specificità, il suo stile di apprendimento, le sue difficoltà — chi grafiche, chi linguistiche, chi di concentrazione ecc.; ma per ciascuno è possibile fare un’esperienza di conoscenza. A tre condizioni.
La prima è che ne valga la pena, cioè che i contenuti da conoscere siano capaci di intercettare le domande, le esigenze, i desideri degli adolescenti, che la questione del senso sia centrale nei testi, negli argomenti, nelle problematiche trattate a scuola. Per meno di questo un ragazzo, nel momento in cui la sua soggettività esplode in tutta la sua pienezza, non si metterà in moto. Secondo, che il docente sia una reale auctoritas, cioè una presenza che “favorisce il metodo e testimonia la possibilità di esiti positivi” (E. Rigotti), innanzitutto ponendo domande tali da dare l’innesco alla ricerca personale, al ragionamento e al dialogo. Terzo, che lo studente si percepisca in relazione con gli altri con cui condivide l’avventura conoscitiva, compagni, docenti, autori… Non è infatti l’individualizzazione che muove l’io, cioè la proposta di un percorso fatto su misura per ciascuno studente in base alle sue mancanze, bensì la cura delle relazioni, così che nessuno si senta solo nella ricerca, che ognuno si senta parte di una compagnia in cammino alla conquista del significato, che l’esperienza e le scoperte di ciascuno siano al servizio di tutti. Perché la natura della persona è ultimamente relazionale e solo in un rapporto si compie: “La differenza tra ‘individualistico’ e ‘personale’ è proprio qui, è un atteggiamento del singolo che o si pone di fronte alle cose nella brevità del suo ‘io’ isolato o si percepisce soggetto di rapporti universali, perché la sua essenza è relazione con l’Infinito” (L. Giussani).